a cura di Armando Pepe
Pagina principale di riferimento: Le relazioni ad limina dei vescovi della diocesi di Alife
Nota bene: è riportata di seguito la versione in traduzione italiana delle relazioni ad limina dei vescovi della diocesi di Alife nel periodo compreso tra il 1590 e il 1659 (fonte: Archivum Secretum Vaticanum, Congr. Concilio, Relat. Dioec. 32 A, ff. 1r.-112v). La traduzione italiana delle relazioni è accompagnata da un inquadramento storico. Per consultare le relazioni nella versione originale in latino collegarsi QUI.
Questi stessi testi sono pubblicati a stampa in Armando Pepe (a cura di), Le relazioni ad limina dei vescovi della Diocesi di Alife (1590-1659), Youcanprint, Tricase 2017.
Sommario
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Introduzione
1. Le visite ad limina Apostolorum (alle soglie di San Pietro e Paolo) in Roma rappresentano un obbligo canonico per tutti i vescovi della Chiesa cattolica. Papa Sisto V, con la costituzione Romanus Pontifex del 20 dicembre 1585, impose che ogni triennio, a cominciare dal 1587, i singoli presuli si recassero a Roma per omaggiare le tombe degli Apostoli e consegnare una relazione sullo stato della loro diocesi, che era poi esaminata dalla Sacra Congregazione del Concilio. I presuli però, eccezionalmente, potevano esimersi dal compiere il viaggio a Roma, con valide giustificazioni per motivi di salute, e nominare un proprio delegato. Per la diocesi di Alife il 1590 è l’anno della prima relazione, che il sacerdote don Alessandro Perrino, al posto del vescovo Enrico Cini, portò personalmente a Roma.
I resoconti episcopali costituiscono un’inesauribile miniera di notizie interessanti, poiché fotografano sistematicamente e costantemente il territorio, non tralasciando nessun dettaglio. Pur non seguendo uno schema fisso, alcune informazioni, come la descrizione dei capitoli ecclesiastici nella cattedrale e nelle collegiate, l’esistenza di diversi ordini religiosi e di confraternite in ciascuno dei paesi diocesani, sono sempre riferite con il massimo scrupolo. Per il periodo preso in esame, che si estende fino al 1659, emergono dati molto avvincenti, non solo per la storia della Chiesa, ma anche per una maggiore conoscenza del feudalesimo locale in età moderna e, in misura minore ma non trascurabile, per l’antropologia culturale e la demografia.
2. La diocesi di Alife copre un territorio posto a nord della regione Campania, lontano dai grandi centri di Terra di Lavoro, e si sviluppa lungo la dorsale dei monti del Matese, lentamente digradante nella piana solcata dal Volturno. Il presule alifano esercita la giurisdizione ecclesiastica entro limiti geografici abbastanza ampi, ma non rigogliosamente antropizzati. I paesi che ricadono interamente nel territorio diocesano sono undici: Ailano, Alife, Castello del Matese, Letino, Piedimonte Matese, Prata Sannita, Pratella, Raviscanina, Sant’Angelo d’Alife, San Gregorio Matese, San Potito Sannitico e Valle Agricola; più due frazioni del comune di Gioia Sannitica: Calvisi e Carattano.
I vescovi che hanno governato la diocesi alifana dal 1590 al 1659, elencati diacronicamente, sono otto: il siracusano Enrico Cini, il ferrarese Modesto Gavazzi, il veronese Valerio Seta, il bolognese Girolamo Maria Zambeccari, Gian Michele De Rossi da Somma Vesuviana, il fiorentino Pietro Paolo de’ Medici, Enrico Borghi da Castelnuovo Scrivia e, infine, il milanese Sebastiano Dossena. La Chiesa alifana ha sempre difeso le sue prerogative, mostrandosi attiva nel controllo della fede e seguendo completamente le norme del Concilio di Trento, che metteva al centro dell’azione episcopale la cura animarum la convocazione di sinodi periodici, il compimento di puntuali visite pastorali e la creazione di un seminario diocesano per la formazione di preti più istruiti. Progressivamente, nel corso della narrazione, leggeremo notizie riguardanti: l’abbandono di certi monasteri, la decrescita demografica di Alife, l’affermazione economica di Piedimonte, la costruzione di nuove chiese e, soprattutto, di un seminario diocesano, a Castello, nel 1646.
3. Anche se, nel corso del XVI secolo, Piedimonte fu marginalmente lambita da cenacoli di natura eterodossa legati agli eretici Lorenzo Romano e Giovan Francesco Alois, in ogni relazione qui presentata i vescovi non mancavano l’occasione di sottolineare che in diocesi non c’era il minimo sospetto di eresia. Nel XVII secolo la vita religiosa trascorreva tranquilla, almeno per quanto concerneva la pastorale, mentre il rapporto tra l’episcopato alifano e i feudatari piedimontesi, nella fattispecie tra monsignor Girolamo Maria Zambeccari e Alfonso II Gaetani di Laurenzana, raggiunse momenti drammatici. Per sorvegliare la fede nelle diocesi dell’Italia meridionale erano inviati, per la maggior parte, vescovi provenienti dagli ordini religiosi ritenuti più scrupolosi nell’osservanza delle regole e più saldi nella dottrina. Anche per la diocesi di Alife è così: su otto presuli, compreso il fugace episcopato di monsignor Enrico Borghi, sette provenivano dal clero regolare.
4. Per un compiuto status quaestionis sulla Chiesa in Terra di Lavoro tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo occorre prendere le mosse dall’imprescindibile volume di Luigi Donvito, Società meridionale e istituzioni ecclesiastiche nel Cinque e Seicento, apparso esattamente trent’anni fa. Vi si esaminano diversi temi, partendo dalla riorganizzazione ecclesiastica delle diocesi, fino alle istituzioni caritative, e considerando anche il problema endemico del banditismo, il dominio feudale e l’evoluzione demografica in Terra di Lavoro a nord del Volturno. Inserendosi nella scia degli studi di storia ecclesiastica in età moderna, incrementati negli anni Settanta del secolo scorso dalla scuola salernitana di Gabriele De Rosa, il presente lavoro non fa altro che riportare le fonti in primo piano, in modo filologicamente corretto, per renderle fruibili a tutti.
Monsignor Enrico Cini
Monsignor Enrico Cini nacque a Siracusa in data ignota, entrò nell’Ordine dei Frati Conventuali di San Francesco, fu consacrato vescovo di Alife il 17 febbraio 1586 a Roma, nella chiesa dei Santi Apostoli, dal cardinale Giulio Antonio Santori. Reputato da tutti un uomo erudito e versatissimo in astronomia, abitò a Piedimonte, in palatio prope Collegiatam Sanctae Mariae Majoris. Passò a miglior vita nel 1598.
Tre relazioni, dal 1590 al 1597
I primi due resoconti di monsignor Cini sono brevi e si limitano a una descrizione essenziale, sia pure efficace, della diocesi alifana. Nel terzo ragguaglio, del 1597, si ha un quadro più completo della vita religiosa locale, adeguatamente analizzata nelle varie articolazioni: chiese, monasteri, confraternite. A mio avviso, i punti cruciali delle tre relazioni sono due: a) la centralità della cattedrale alifana come luogo propulsore e irradiante dell’azione pastorale; b) la residenza dei vescovi in Piedimonte dal 1561, due anni prima della conclusione del concilio di Trento. Non emergono, tuttavia, fatti notevoli, ma solo interessanti accenni demografici sui paesi sottoposti al magistero episcopale. Il filo conduttore è l’applicazione concentrica, pervasiva e molecolare delle regole imposte dal concilio tridentino in modo da sorvegliare il territorio. Bisognava annotare ogni movimento, fare in modo che non esistesse neppure un minimo sospetto ereticale.
1590
Stato della diocesi alifana.
Nella chiesa cattedrale alifana, sotto l’invocazione di San Sisto papa e martire, vi sono due dignità: l’archidiaconato e il primiceriato, dieci canonicati e otto benefici semplici o cappellanie. In detta cattedrale non vi sono il penitenziario né il lettore di teologia, perché la stessa città è quasi distrutta e inabitata e posta in un luogo sconvolto da travolgenti intemperie. Perciò in questa città non fu mai istituito un seminario, tanto per le accennate cause, quanto per la grande tenuità e povertà dell’episcopato e della diocesi. Sono inoltre in detta diocesi tre collegiate: nella prima si trovano dodici canonici, nelle altre due, invero, sei canonici per ciascuna, e altri benefici semplici; e ancora otto monasteri di uomini, e uno di donne, in cui si osserva la clausura perpetua. Nelle domeniche, e nei giorni di festa, in tutte le chiese parrocchiali di detta diocesi, che sono dieci, compresa la cattedrale e le collegiate, si legge e s’insegna la dottrina cristiana ai bambini e alle altre persone volenterose; in queste chiese parrocchiali sono inviati, in tempo di Quaresima, i predicatori, che espongono il verbo divino ai fedeli di Cristo. Nel primo anno che pervenne al suo episcopato, fratello Enrico Cini, siracusano, convocò un sinodo diocesano e visitò quanto prima l’intera diocesi, riformando le cose che dovevano essere cambiate e reprimendo ogni abuso. Sono distribuiti nella diocesi i vicari foranei, che svolgono il loro incarico con debita diligenza. Nelle restanti cose il vescovo procura, in base alle proprie forze, di osservare e far rispettare, in tutta la diocesi, le sacre funzioni, i brevi e i mandati apostolici, i decreti del sacro Concilio Tridentino e altri statuti e formule della santa Maestà Nostra, con ogni diligenza e vigilanza, come un obbedientissimo e fedelissimo figlio della Santa Sede Apostolica…
Enrico Cini, vescovo alifano.
1593
Stato della diocesi alifana.
Nella diocesi c’è una chiesa cattedrale in Alife sotto l’invocazione di San Sisto papa e martire, con due dignità: l’archidiaconato e il primiceriato, e dieci canonicati; ma per l’aria malsana di quella città, non risiedono in essa se non tre canonici, poiché non si trovano presbiteri che vogliano ottenere il predetto canonicato. In diocesi esistono inoltre otto chiese parrocchiali, in cui ci sono parroci, altri presbiteri e chierici; e delle chiese tre sono collegiate con canonici senza dignità ecclesiastiche. Esistono anche in detta diocesi sette monasteri di uomini e uno di donne, in cui si osserva la clausura perpetua. Il vescovo, con tutte le forze, nell’esecuzione del sacro Concilio Tridentino, estirpa ogni abuso, visita annualmente la diocesi e raduna il sinodo diocesano, istituendo in esso esaminatori e adempiendo gli altri requisiti. Il seminario inoltre, per la debolezza dei frutti dell’episcopato, (quasi duecento ducati, monete del Regno di Napoli) e per l’aria malsana, non fu costruito nella città di Alife…
Enrico Cini, vescovo alifano.
1597
Relazione sullo stato della cattedrale alifana e di tutta la diocesi.
La Chiesa alifana è suffraganea della Chiesa metropolitana beneventana e distante da essa ventiquattro miglia. Nella città alifana c’è una chiesa cattedrale sotto l’invocazione di San Sisto papa e martire, con due dignità ecclesiastiche: l’archidiaconato e il primiceriato, e dieci canonicati, e molti beneficiati, che svolgono gli uffici divini, sebbene non recitino nella stessa cattedrale il mattutino e le altre ore canoniche, se non in alcune festività. Per l’aria malsana la città alifana è spopolata e quasi inabitata. Nei tempi antichi fu una città popolosissima, e tanto insigne, come dimostrano le sue mura e i vetusti edifici; ora, invece, giace quasi distrutta. Si recita tuttavia nella cattedrale la santa messa di domenica e nei giorni festivi, e qualche messa recitata si celebra anche nei giorni feriali. Vi sono nella cattedrale le confraternite del Santissimo Corpo di Cristo e della Beatissima Vergine Maria del Rosario; inoltre c’è la custodia del Santissimo Sacramento. Nella chiesa c’è un fonte battesimale per la cura delle anime; poi ci sono anche i paramenti, gli ornamenti e le altre insegne episcopali, necessarie al culto divino. I frutti della mensa vescovile sono deboli a tal punto che arrivano quasi a circa settecento ducati annui. I redditi dei canonicati non superano il valore di trenta ducati annui. Esiste inoltre in Alife il monastero dei Frati Minori Claustrali dell’Ordine di San Francesco, in cui convivono alcuni padri seguendo la loro regola, e ci sono altre chiese e cappelle tanto all’interno della predetta città quanto nelle sue vicinanze e fuori dalle mura. Il vescovo ha un’ampia diocesi in cui esistono sette terre: a) quella di Piedimonte, assai popolosa, in cui risiede il vescovo, a causa dell’aria malsana di Alife. La terra di Piedimonte è divisa in tre parti, cioè Piedimonte, Vallata e Castello, e in ognuna esiste una chiesa collegiata, sotto le rispettive invocazioni di Santa Maria Maggiore, dell’Annunziata, e della Santa Croce, con molti canonici e presbiteri. Vi sono in detta terra di Piedimonte i monasteri dei Cappuccini, di San Domenico, e di Santa Maria del Carmelo, e anche un monastero femminile, delle monache di San Benedetto, in cui si osserva la clausura. Esistono anche molte confraternite, ospedali e cappelle, tanto nelle tre parti della città quanto in alcuni casali a essa adiacenti. b) La terra di Prata è sufficientemente abitata. Vi esiste una chiesa parrocchiale, sotto l’invocazione di San Giovanni Battista, con molti presbiteri e chierici che celebrano i culti divini; la chiesa custodisce, per la cura delle anime, il sacro fonte battesimale e le altre cose necessarie al culto divino. In detta terra inoltre esistono due monasteri, l’uno dei Frati Minori dell’Osservanza (Conventuali), l’altro di Sant’Agostino, e molte altre chiese e cappelle. c) La terra di Sant’Angelo, divisa in due parti, ha una chiesa parrocchiale, sotto l’invocazione di Sant’Angelo, con un fonte battesimale, un rettore e dei presbiteri che vigilano onorevolmente il sacramento della Santissima Eucarestia. Vi sono, dentro e fuori detta terra, anche alcune confraternite, chiese e cappelle. d) Le terre di Letino, Ailano, Pratella e Valle hanno chiese parrocchiali, sotto diverse invocazioni, e con la cura delle anime esercitata da singoli rettori perpetui; oltre i quali esistono pure altri presbiteri e chierici che svolgono gli uffici divini. Dette chiese hanno diverse confraternite e fonti battesimali e, in ognuna, si custodisce riverentemente il Santissimo Sacramento, e tutte sono decorosamente ornate. Il vescovo attuale è solito far celebrare annualmente il sinodo diocesano, in cui si eleggono gli esaminatori secondo le disposizioni del sacro Concilio Tridentino; nel sinodo si stabiliscono tutte quelle cose che sono necessarie per l’aumento del culto divino e per la salvezza del gregge dei fedeli. Il vescovo inoltre sradica fino in fondo, con forza, ogni abuso e tutte le cose che ritiene siano pericolose per il suo popolo e contro i buoni costumi. Non è stato ancora eretto un seminario diocesano in Alife, sia per la tenuità dei frutti della mensa vescovile sia per l’aria malsana di quella città. Nel tempo di Pasqua il vescovo è solito rinnovare gli oli sacri, e porta a termine tutte le restanti cose che sono assolutamente da fare per il buon governo dell’incarico affidatogli.
Enrico Cini, vescovo alifano.
Monsignor Modesto Gavazzi
Monsignor Modesto Gavazzi nacque a Ferrara in un anno tra il 1555 e il 1558. Entrò tra i Minori Conventuali e, in seguito, fu maestro di teologia nel suo ordine. Come ci ricorda lo storiografo modenese Giovanni Franchini, monsignor Gavazzi fu un predicatore rinomato e nella chiesa dei Santi Apostoli in Roma tenne le omelie per il quaresimale del 1591. Dal padre Filippo Gesualdi, ministro generale dei Minori Conventuali, fu chiamato a servire il proprio ordine nel capitolo plenario che si tenne nel 1596 a Viterbo; città in cui predicò, in quel torno di tempo, per ventidue volte nella basilica di San Francesco alla Rocca, e una volta sola, nel duomo, in occasione della ricorrenza della Santissima Trinità. E ancora, nella cattedrale viterbese, nel 1656, monsignor Gavazzi declamò eccelsi panegirici nonostante avesse come temibile concorrente padre Alessandro Ferrini da Firenze, francescano celebre per la melliflua facondia. Monsignor Gavazzi era, nel 1596, il reggente dello studio di Ferrara, luogo in cui momentaneamente viveva anche padre Cassandri da Castelfidardo, ottimo teologo e fine studioso di retorica sacra. Dopo una breve pausa, nel 1598 lo ritroviamo di nuovo al vertice dello studio teologico ferrarese. Divenuto famoso per l’avvincente retorica, suscitò finanche l’interesse di papa Clemente VIII. Narra, a tal proposito, Giovanni Franchini che quando monsignor Gavazzi presiedeva lo studio ferrarese, capitato in Ferrara il Sommo Pontefice Clemente VIII che, per incendio notturno, partì dal castello estense e si ricoverò nel nostro convento di San Francesco, dove celebrò la mattina seguente, ebbe il Gavazzi occasione di meglio essere conosciuto dal Pontefice, cui già era pervenuta notizia di questo letterato, e volendo decorar la città di qualche onore ecclesiastico il Pontefice nominò il prelato alla guida della Chiesa d’Alife. Pertanto monsignor Gavazzi fu nominato vescovo di Alife il 7 agosto 1598. Dante Marrocco, raccogliendo informazioni a suo tempo annotate da Gianfrancesco Trutta, ci dice che monsignor Gavazzi fu protagonista in un violento scontro di competenze col clero piedimontese. Il 26 febbraio 1600, la Collegiata di Santa Maria Maggiore presentò un ricorso alla Congregazione dei Vescovi e Regolari, poiché monsignor Gavazzi voleva che la cura delle anime fosse esercitata dal solo arciprete della chiesa e non dall’intero capitolo. Purtroppo, il 21 febbraio 1601, la Congregazione diede torto al presule. Ciononostante la divergenza col clero durò a lungo e, contrariato dall’esito del ricorso, monsignor Gavazzi creò una nuova parrocchia indipendente nel villaggio di San Potito, il 14 aprile 1601, a scapito della Collegiata di Santa Maria Maggiore. Pochi anni dopo, e precisamente nell’agosto 1608, il vescovo morì.
Tre relazioni, dal 1600 al 1607
Nel primo resoconto si descrive, con dovizia di particolari, l’apparizione della Madonna nella campagna alifana. Il fatto esercitò un’enorme attrattiva sui fedeli, che accorrevano da ogni dove e profondevano oblazioni per la costruzione di una chiesa in onore di Santa Maria Vergine, a testimonianza della devozione mariana. Purtroppo, gettate le fondamenta, la cappella rimase incompiuta, nonostante il signore della città di Alife custodisse trecento ducati offerti appositamente per la costruzione. Apprendiamo inoltre, e con sorpresa, che la chiesa di Santa Maria della Grazia, sempre in Alife, ma fuori le mura, era sostenuta da colonne di marmo e bellissima, ma lasciata così in abbandono tanto da essere conosciuta come l’abitazione dei villani. A Piedimonte invece lo snaturato amministratore del convento benedettino, un certo Simone De Rede, da povero che era divenne ricco, non essendosi mai interessato, in trentotto anni di lavoro, della sorte delle sprovvedute monache, che da sempre vivevano in condizioni precarie.
1600
Diocesi alifana.
Il vescovo alifano, per il sesto triennio, visitò le soglie degli Apostoli, esibendo la relazione sullo stato della Chiesa.
La cattedrale, per la vetustà, ha bisogno di riparazioni, e solo in essa si conservano tutti i Sacramenti; sebbene siano esistite in Alife molte altre chiese parrocchiali, tuttavia ora ne restano in piedi solo le vestigia. Nella cattedrale c’erano otto canonici, un archidiacono e un primicerio, che durante la settimana celebravano soltanto la messa, non ottemperando alle ore canoniche. Così il vescovo, nella visita pastorale, con il consenso del capitolo, ha estinto quattro canonicati, che erano vuoti, e ha conferito i loro redditi alle distribuzioni quotidiane, che erano quasi nulle, in modo che fossero esauditi gli uffici divini.
Nell’agro alifano, qualche anno fa, l’immagine di Santa Maria Vergine risplendeva in molti miracoli. Perciò una grandissima quantità di gente vi confluiva da ogni dove e le oblazioni divennero tanto copiose che gli uomini dell’Università di Alife ottennero dalla Chiesa la gestione delle offerte a queste condizioni: che costruissero una cappella a proprie spese e rendessero conto della sua amministrazione al vescovo. In verità, gettate le fondamenta e alzati i muri, la chiesa rimase incompiuta. Trecento ducati delle oblazioni, dunque, sono presso il valido signore della città di Alife. Sempre nell’agro alifano esistono altre due chiese della Congregazione dei Celestini: l’una di Santa Maria delle Vergini, ornata con belle pitture ma senza porte e quasi del tutto distrutta, l’altra di Santa Maria della Grazia, ampia, sostenuta da colonne di marmo e di nobile costruzione ma lasciata così in abbandono, tanto che tutti la conoscono come l’abitazione dei villani. In Alife c’è pure un insigne monastero, in cui molti Frati Minori osservanti una volta vivevano insieme e avevano una loro chiesa. Ora in quel luogo abita soltanto un monaco dei Celestini, che prende tutti i redditi della chiesa, oltre diciotto ducati l’anno, e li rende ai suoi superiori. Nessuno pensa alla riparazione della chiesa o del monastero, che tra breve andranno in rovina.
Nella Collegiata di Santa Maria Maggiore, della terra di Piedimonte, il capitolo è quasi al completo e la cura delle anime è esercitata dai canonici tutte le settimane. Il vescovo inoltre nella visita generale ha stabilito che la cura delle anime ricada principalmente sull’archipresbitero di quel capitolo e che i suoi coadiutori siano canonici ritenuti idonei, poiché, per antica corruttela, quei canonicati non ottennero curati dalla Sede Apostolica, sebbene i presbiteri si dichiarassero crucciati da quel decreto e ricorressero alla Sacra Congregazione dei Vescovi, che finora non ha emesso alcuna disposizione. Gli stessi canonici di quella chiesa sono impegnati soltanto nella celebrazione delle messe giornaliere, ma non adempiono le ore canoniche, sebbene il loro reddito sia di cinquanta ducati annui; per la qual cosa il vescovo cerca di porre rimedio. Nelle collegiate dell’Annunziata e della Santa Croce, della stessa terra di Piedimonte, in cui si assolve la cura delle anime, il capitolo è quasi al completo. Il vescovo inoltre durante la visita ha ordinato che entro un tempo definito detti capitoli presentino un sacerdote idoneo, proveniente o meno dai medesimi capitoli, cui sia affidata la cura delle anime. Le monache di San Benedetto, della stessa terra di Piedimonte, che sono dodici, ignorano completamente la loro regola e sono prive di tutte le cose necessarie al sostentamento; la maggior parte dei campi, che loro spettano, è occupata da diverse persone, cosicché i redditi delle monache, rimasti nella disponibilità del monastero, sono oltremodo tenui; e i loro terreni sono affidati in enfiteusi, sebbene nessuna cosa sia stata decretata da un mandato apostolico. Sebbene il vescovo, nella visita pastorale, avesse emanato un editto che stabiliva la decadenza di quell’amministrazione monastica, in modo che le monache rivelassero ciò che di proprietà del monastero era stato affidato in enfiteusi e si comportassero diversamente, soltanto le cose già note furono rivelate e, per giunta, dei beni conventuali non rimane nemmeno un inventario. Un certo Simone De Rede, che è morto improvvisamente l’anno scorso, amministrò come procuratore il patrimonio di quel monastero per trentotto anni, né mai diede conto della sua attività; spesso invitato dalle monache a fare l’inventario dei beni, non volle mai redigerlo; era povero prima dell’amministrazione, dopo la morte, invece, lasciò molti beni ai suoi eredi. Il vescovo chiede che qualcuno tra gli eredi dell’ex amministratore sia costretto a rendere conto della sua gestione patrimoniale. Il monastero è angustissimo: le celle sono fatte di tavole di legno, non ha un refettorio, né stanze separate per le novizie e infine manca di tutte le cose necessarie. Se non fosse per un congruo aiuto offerto dall’Università di Piedimonte per la ricostruzione di quel convento, il vescovo potrebbe pensare di sopprimerlo.
Nella chiesa di Prata si conservano tutti i Sacramenti che dai presbiteri sono amministrati ogni settimana. Tuttavia il vescovo, nella visita, ha ordinato che entro un tempo ben definito sia presentato un sacerdote idoneo, cui affidare la cura delle anime. Nella terra di Sant’Angelo esistono cinque chiese parrocchiali: la prima è Santa Maria della Valle, con la cura delle anime esercitata da un archipresbitero, la seconda è San Bartolomeo, quasi distrutta per la vetustà, la terza è San Nicola, distante non poco dal centro abitato di quella terra. Non si conserva nessun Sacramento in queste ultime due chiese, ma i loro parroci sono stati assunti da Santa Maria della Valle, per il bene di tutti i parrocchiani. Queste due chiese, ormai quasi distrutte dall’obsolescenza, non possono essere riparate per mancanza di fondi, così che il vescovo, nella visita pastorale, ha deciso di unirle alla chiesa madre di Santa Maria della Valle, dove si possono celebrare le messe e adempiere gli uffici divini. Il vescovo tuttavia aspetta il mandato della Sacra Congregazione del Concilio. Delle restanti due chiese una è sotto l’invocazione della Santa Croce, l’altra di San Felice, quasi distrutta dalla vecchiaia, tanto che il parroco della prima ha preso i Sacramenti per i suoi parrocchiani.
Fratello Modesto, vescovo alifano.
1604
La seconda relazione di monsignor Modesto Gavazzi, presentata in Roma il 20 febbraio 1604, si rifà completamente alla prima, quella del 1600, e non aggiunge nulla di nuovo.
1607
La prossima relazione si limita a presentare un semplice fatto di cronaca che si trasforma in un lungo e ingarbugliato conflitto giurisdizionale. La baruffa tra un chierico e un laico, avvenuta a Piedimonte nella piazza di San Domenico, si estende per cerchi concentrici e coinvolge personaggi eminentemente influenti: il vescovo di Alife, il duca di Piedimonte, il governatore regio, il giudice ecclesiastico, fino ad arrivare addirittura a Napoli, dove finalmente è risolta dal viceré, Juan Alonso Pimentel de Herrera, che la dirime con saggezza, tenendo conto degli equilibri esistenti, in modo che il potere feudale non invada protervamente il raggio d’azione della Chiesa. Oltre all’aspetto giudiziario di un pervicace scontro tra poteri (messo in evidenza, con numerosi esempi, da Pietro Giannone nell’Istoria civile del Regno di Napoli) comune a tante altre realtà locali, emerge dal resoconto episcopale anche un piccolo contributo per la storiografia piedimontese: veniamo a sapere che in palazzo ducale c’era un carcere feudale, chiamato La Pomposa, sul cui etimo si possono avanzare infinite speculazioni.
La relazione sulla diocesi alifana, per il settimo triennio, è stata esibita dal Reverendissimo Signor Vescovo il giorno 5 giugno 1607.
Illustrissimi e Reverendissimi Signori Cardinali della Congregazione del Sacro Concilio Tridentino.
Fratello Modesto, vescovo alifano per grazia di Dio e della Sede Apostolica, in questo settimo triennio, in cui personalmente ha visitato le soglie dei Santi Apostoli, null’altro ha da esporre alla Sacra Congregazione se non un solo fatto che ha ritenuto degno di raccontare alle Vostre Signorie Illustrissime in modo che appaia evidente a quante inquietudini sia sottoposto il vescovo nell’atto di difendere la giurisdizione ecclesiastica.
Sappiano dunque che in questo corrente anno 1607, nel mese di febbraio, il chierico Angelo Cini, nipote del mio predecessore Enrico Cini, mentre stava nella grande piazza di San Domenico, in terra di Piedimonte, con parole contumeliose fu provocato a rissa da un certo Girolamo D’Amico. Il chierico Cini senza indugio, volendosi difendere, rispose oltraggiosamente al D’Amico e mentre i due stavano per arrivare alle mani, improvvisamente apparvero cinque guardie armate del duca Gaetani, valido signore di questa terra, che catturarono il reverendo nonostante fosse in abito talare e avesse la tonsura. Il chierico Cini voleva essere trasferito davanti al proprio giudice, ma le guardie lo portarono al carcere privato, chiamato La Pomposa, in palazzo ducale, a Piedimonte. Il vescovo, saputo ciò, con una missiva scritta dal prete don Giacomo Petrucci, pretese che il chierico Cini fosse consegnato alla curia episcopale e scomunicò le cinque guardie ducali per l’indebito arresto. Intervenne pure il governatore di Piedimonte che rimise il chierico Cini al giudice ecclesiastico competente, insieme a tutti gli atti. I funzionari feudali, uomini del duca Gaetani, reclamarono contro questa decisione e si appellarono al Tribunale della Vicaria, in Napoli, esigendo che il governatore fosse subito punito per aver liberato il chierico Cini e, davanti alla corte, tirarono fuori pure una lettera contro il vescovo. Si costituì in giudizio, in opposizione alla deliberazione del governatore, anche il duca Gaetani in persona, il quale, con tutte le sue forze, voleva che il chierico Cini fosse di nuovo mandato in carcere. Il chierico Cini, sentendosi sotto pressione pur senza aver commesso alcun misfatto, non era libero di muoversi e temeva per la propria salute. Tuttavia il chierico Cini e il governatore non furono puniti, anzi conobbe l’incresciosa storia anche l’illustrissimo ed eccellentissimo signor Viceré, in Napoli, che convenne sulla non liceità dell’arresto del primo e sulla non punibilità del secondo. Dal canto suo il vescovo, per una pacifica convivenza, promise al duca Gaetani che avrebbe implorato, presso il Santo Padre, la remissione della scomunica per le cinque predette guardie.
Per le altre cose, rimando alla precedente relazione.
Fratello Modesto, vescovo.
Monsignor Valerio Seta
Monsignor Valerio Seta nacque a Verona nel 1562 da un’antica famiglia cittadina. Abbracciò, giovanissimo, la vita ecclesiastica, entrando nell’Ordine dei Servi della Beata Vergine Maria (o Serviti). Studiò scienze naturali, e si applicò simultaneamente, in modo costante, all’apprendimento della lingua latina, tanto da riuscire a parlarla fluentemente. Scrisse anche alcune forbite poesie in latino. Partecipò, nel 1585, a un capitolo generale del suo Ordine, che si tenne a Bologna e, con amabili e soavi versi, lodò il valore dei disputanti e dei sacri dicitori, che avevano illustrato quella gran funzione. Soprattutto, richiamò l’attenzione del padre generale dei Serviti, Aurelio Menocchio, che l’encomiò grandemente. Monsignor Seta, nell’Ordine Servita, eseguì con singolare perizia molti incarichi, fino al provincialato della Marca Trevigiana. Fu anche un valente teologo, tanto che il cardinale Bonifazio Bevilacqua lo tenne sempre in grande considerazione, ospitandolo spesso per lunghi periodi. Oltre a lavori propriamente religiosi, nel 1606 pubblicò, a Ferrara, un Compendio historico dell’origine, discendenza, attioni, et accasamenti della famiglia Bevilacqua, in cui narra la storia della nota famiglia veronese. Nel 1606 scoppiò la cosiddetta guerra dell’interdetto, cioè una vertenza (e/o battaglia di scritture) tra la Repubblica di Venezia e lo Stato Pontificio, a causa dell’arresto, a Venezia, di due preti cattolici, accusati di reati comuni. Monsignor Seta, senza dubbio, si schierò per il papa, scrivendo un libello, mai ritrovato, in cui si confutavano le tesi di Paolo Sarpi, favorevoli alla Serenissima Repubblica di Venezia. Posteriormente, monsignor Seta, sempre prodigo con i meno abbienti, tanto da esser chiamato il padre dei mendichi, fu nominato vescovo di Alife nel 1608, quando aveva quarantasei anni, da papa Paolo V. Dopo tredici anni di episcopato, morì a Piedimonte nel 1624.
Sei relazioni, dal 1611 al 1624
Già nella sua prima relazione Monsignor Seta ci dice di aver acquistato, a proprie spese, un decoroso palazzo come residenza episcopale. Si riferisce, evidentemente, all’edificio sito in Piedimonte, nell’odierna piazza Ercole d’Agnese, che ha ospitato i vescovi fino alla metà del Novecento. Monsignor Seta si mostra sempre premuroso nel descrivere meticolosamente gli ordini religiosi presenti nel territorio diocesano, e le chiese dei singoli paesi. Nel terzultimo resoconto del suo mandato, scritto nel 1619, leggiamo che il presule alifano si era adoperato nel far piantare una vigna, verosimilmente per produrre il vino da usare nelle sante messe.
1611
Io, fratello Valerio Seta, dottore in sacra teologia, appartenente all’Ordine dei Servi della Beata Maria Vergine, vescovo alifano, nell’adempimento del dovere, ingiunto da papa Sisto V, di visitare le soglie dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, riferisco alla Vostra Santità lo stato della città di Alife e della mia diocesi.
La città di Alife è posta nel Regno di Napoli, in provincia di Terra di Lavoro, e per quanto riguarda il potere temporale è soggetta a Giulio Barone. Questa cattedrale, sotto l’invocazione della Beata Vergine Maria Assunta, suffraganea dell’arcivescovo di Benevento, ha due dignità: l’archiadiaconato e il primiceriato, che sono vacanti e privi di frutti, dieci canonicati e un reddito certo di trenta scudi annui. Gli uffici divini sono celebrati da canonici che non risiedono in Alife a causa dell’aria malsana che rende la città inabitabile. La diocesi, oltre Alife, comprende sette paesi, che sono: Piedimonte, Prata, Valle, Pratella, Letino, Ailano e Sant’Angelo. Il paese di Piedimonte è abbastanza popoloso. Vi risiede il vescovo. Ha tre chiese collegiate, in due delle quali vi sono sei canonici a testa. Nella terza invece i canonici sono dodici e tutti assolvono la cura delle anime. Nelle chiese ogni giorno sono celebrati i culti divini secondo il rito di Santa Romana Chiesa. Il clero in Piedimonte è numeroso e bene istruito. Nel paese vi sono tre monasteri di uomini e uno per le monache. Il paese di Prata ha un archipresbitero e altri presbiteri che servono nella chiesa parrocchiale di Santa Maria della Grazia, che è ricettizia. Il clero è bene ordinato; lì vi sono due monasteri di uomini, l’uno di Sant’Agostino (Agostiniani), l’altro di San Francesco dell’Osservanza. Il paese di Letino ha una chiesa parrocchiale sotto l’invocazione di San Giovanni, che è ricettizia, in cui sono un archipresbitero e altri presbiteri, che lo aiutano. Il paese di Sant’Angelo, diviso in due casali, ha tre chiese parrocchiali, due nel borgo Paparini, un’altra in quello di Raviscanina, tutte rette da propri parroci, in modo molto accurato. Vi è un archipresbitero che non ha cura d’anime, né un reddito certo. Esiste in Sant’Angelo il monastero dei Frati Celestini. Valle ha una sua parrocchia, retta da due presbiteri, ma è priva di un proprio archipresbitero, per cui fa riferimento a quello di Prata. Ailano ha un archipresbitero e altri presbiteri, che reggono una chiesa parrocchiale ricettizia. Pratella ha un proprio archipresbitero, cui è demandata la cura d’anime.
In tutti i predetti luoghi, il clero è bene istruito, anzi il popolo dell’intera diocesi vive cristianamente secondo i dogmi della Chiesa di Roma e nessun abuso finora è stato riscontrato. In diocesi manca un seminario a causa dei modici fondi disponibili ma, in giorni stabiliti, si propongono casi di coscienza, che sono discussi in mia presenza da tutti i parroci e dai presbiteri. Nelle parrocchie, di domenica, s’insegna ai bambini la vera dottrina cristiana. Non ho celebrato ancora un sinodo, che si farà a tempo debito, essendo io malato da molto, ma la diocesi è governata secondo le costituzioni sinodali emesse dal vescovo mio predecessore. Ho inoltre promulgato molti editti per l’osservanza dei giorni festivi, per la giusta correzione sia del popolo sia del clero e per la corretta esecuzione del dovere pastorale.
Eminentissimi, per me e i miei successori episcopali, ho acquistato un edificio nel paese di Piedimonte, dove sistemare il vescovado, al prezzo di quattrocentocinquanta ducati, e quasi altrettanti ne ho spesi per riattarlo. Infine, ho restaurato, con grande spesa, la chiesa cattedrale e anche il palazzo vescovile in Alife, che stavano per crollare. Questo è lo stato della diocesi alifana, che ora riferisco alla Santità Vostra, cui bacio i santissimi piedi.
Fratello Valerio Seta, vescovo alifano.
1612
Relazione di fratello Valerio Seta, vescovo alifano, per la seconda visita ad limina apostolorum, presentata nel mese di giugno 1612.
La chiesa alifana è nel Regno di Napoli, in provincia di Terra di Lavoro, e suffraganea dell’episcopato beneventano. La cattedrale di Alife ha un capitolo con dieci canonici, e due dignità: l’archidiaconato e il primiceriato, ma da molti anni sono vacanti, poiché mancano del tutto di redditi. La cura delle anime è affidata soltanto alla chiesa vescovile. A causa dell’aria malsana di Alife i vescovi risiedono in Piedimonte e per le manifestazioni e le pubbliche solennità si recano nella cattedrale, dove celebrano le sacre funzioni e le messe pontificali. Nella città di Alife esistono due monasteri di uomini, il primo è di San Francesco dei Conventuali, il secondo dei Celestini. La diocesi, oltre Alife, ha sette paesi, che sono: Piedimonte, Prata, Sant’Angelo, Letino, Ailano, Pratella, Valle. Piedimonte ha tre collegiate: nella prima vi sono dodici canonici, nelle altre due sei per ognuna. In verità ci sono in Piedimonte moltissimi presbiteri e chierici. Una volta l’anno in ogni collegiata si eleggono due tra i detti canonici per amministrare la cura delle anime. Quattro sono i monasteri, tre di uomini: San Domenico, San Francesco dei Cappuccini e quello dei Carmelitani, uno di monache, sotto la regola di San Benedetto, in cui le suore vivono sotto la cura dell’ordinario diocesano e osservano la clausura seguendo la forma del sacro Concilio Tridentino e i decreti del Sommo Pontefice. Ho ricostruito il loro monastero dalle fondamenta poiché finora mancava di celle e di altre stanze necessarie alla vita monastica.
Prata ha un archipresbitero per la cura delle anime, un economo, nella funzione canonica di Abate di San Pancrazio, e altri presbiteri e chierici, che prestano servizio nella medesima chiesa parrocchiale e ricettizia. In Prata esistono pure due monasteri di uomini, il primo di San Francesco dell’Osservanza, il secondo di Sant’Agostino. Il paese di Sant’Angelo è diviso in due casali e ha tre parrocchie: due sono in un casale, la terza in un altro. Ha un archipresbitero quasi senza redditi e che non amministra la cura delle anime. In Sant’Angelo vi è solo il monastero dell’ordine dei Celestini.
Letino ha una chiesa parrocchiale e ricettizia, con un archipresbitero, numerosi sacerdoti e chierici.
Ailano ha un archipresbitero, cui è affidata la cura delle anime, e altri chierici. Valle ha due sacerdoti e diversi chierici, ma manca tuttavia di un archipresbitero per la cura delle anime.
In questi paesi si vive cattolicamente, né vi è alcun sospetto di eresia. Io ho disposto che nelle parrocchie sia insegnata la dottrina cristiana. Ogni anno ho visitato la diocesi e ho fatto osservare le prescrizioni dei Sacri Concili, le bolle e le costituzioni dei Sommi Pontefici. Ho fatto santificare i giorni festivi, celebrare i matrimoni secondo il rito e raccomandato molte altre cose utili a vivere bene e ordinatamente. Davanti a me, ogni settimana sono proposti e decisi casi di coscienza in una diligente discussione cui partecipano, secondo un decreto da me stabilito, tre canonici della congregazione delle collegiate e anche i confessori. Ogni anno nella chiesa cattedrale si tiene un sinodo in cui si celebrano le ordinazioni e si deliberano i decreti che sembrano necessari a riformare l’intera diocesi. Il seminario non è stato ancora eretto in questa diocesi. Ho restaurato, poiché stavano per crollare, la chiesa cattedrale e la casa episcopale alifana. Ho comprato, e ingrandito, il palazzo vescovile in Piedimonte, poiché, nei tempi andati, i vescovi non avevano una degna residenza. Questo è lo stato della chiesa alifana e della mia diocesi.
Fratello Valerio Seta, vescovo alifano.
1616
Terza relazione di fratello Valerio Seta, vescovo alifano.
La Chiesa alifana, sita nel Regno Napoletano, è suffraganea dell’arcivescovo beneventano; oltre la città di Alife ci sono in diocesi sette, come dicono, terre: Piedimonte, Prata, Sant’Angelo, Letino, Ailano, Pratella e Valle di Prata, ciascuna con un proprio archipresbitero. La chiesa cattedrale, e parrocchiale, è la sola che abbia un parroco in questa città alifana; essa ha un capitolo, comprendente dieci canonici, tra cui vi sono due dignità: un archidiaconato e un primiceriato, che tuttavia sono privi di redditi. I vescovi da molti anni a questa parte, a causa dell’aria malsana, risiedono in Alife il meno possibile e usualmente abitano in Piedimonte, a tre miglia di distanza. Nelle solennità si recano in cattedrale per celebrarvi le sacre funzioni. In Alife esistono due monasteri: dei Conventuali di San Francesco, e dei Celestini.
Piedimonte ha tre collegiate; nella prima, quella di Santa Maria Maggiore, vi sono dodici canonici, nella seconda, la chiesa dell’Annunziata, sei, proprio come nella terza, la chiesa della Santa Croce.
Vi è un archipresbitero senza cura d’anime nella prima collegiata, ma in questa, come nelle altre due, ogni anno si eleggono due canonici per ciascuna, che amministrano la cura delle anime. Ogni collegiata, al tempo di Quaresima, ha un proprio predicatore. A Piedimonte esistono quattro monasteri, tre dei quali di uomini: San Domenico, San Francesco dei Cappuccini, e quello dei Carmelitani. Vi è soltanto un monastero femminile, delle monache di San Benedetto, che vivono sotto le cure e l’obbedienza dell’ordinario diocesano, osservando la clausura secondo la forma del sacro Concilio Tridentino. Prata ha una chiesa patrimoniale o ricettizia, in cui vi sono un archipresbitero, con cura d’anime, e un economo nella funzione canonica di abate di San Pancrazio. Sempre in Prata esistono due monasteri: di San Francesco dell’Osservanza e di Sant’Agostino. Il villaggio di Sant’Angelo ha tre parrocchie e soltanto un archipresbitero, senza cura d’anime né redditi certi, ma le tre chiese sono rette, singolarmente, da tre parroci. In Sant’Angelo vi è il solo monastero dell’ordine dei Celestini. Letino ha una chiesa parrocchiale ricettizia, contenente molti sacerdoti; veramente al solo archipresbitero spetta la cura delle anime. Ailano ha un parroco archipresbitero. Pratella e Valle, rispettivamente, hanno un loro archipresbitero. In questi luoghi si vive secondo la dottrina cristiana, né io conosco sospetti d’eresia. Ogni anno celebro un sinodo nella chiesa cattedrale e visito l’intera diocesi. Questo è lo stato della Chiesa e della diocesi alifana, che io brevemente ho esposto.
Anno MDCXVI
Fratello Valerio, vescovo alifano.
1619
Relazione di fratello Valerio Seta, veronese, vescovo alifano, per la quarta accessione ad limina Apostolorum, fatta per procura nel mese di maggio.
La Chiesa alifana, posta nel Regno di Napoli, è suffraganea dell’arcivescovo beneventano; oltre Alife, nella sua diocesi, ha sette terre: Piedimonte, Prata, Sant’Angelo, Letino, Ailano, Pratella e Valle di Prata, e tutte hanno un proprio archipresbitero. La chiesa cattedrale ha un capitolo comprendente dieci canonici, tra cui esistono due dignità: l’archidiaconato e il primiceriato; purtroppo dette dignità sono prive di redditi. Questa chiesa è la sola che nella città di Alife amministra la cura delle anime. I vescovi, ormai da molti anni, sono stati costretti ad abbandonare Alife a causa dell’aria malsana e ora risiedono nel paese di Piedimonte, a tre miglia di distanza. Nelle solennità di rilievo si recano in cattedrale per celebrare le sacre funzioni. In Alife si trovano due monasteri, il primo dei Conventuali di San Francesco, il secondo dei Celestini.
Piedimonte ha tre chiese collegiate: nella prima, che si chiama Santa Maria Maggiore, vi sono dodici canonici, nella seconda, denominata della Santissima Annunziata, i canonici sono sei così come nella terza, dal nome di Santa Croce. In verità il numero dei presbiteri e dei chierici della terra piedimontese è enorme; essi superano i duecento. Nella prima collegiata vi è un archipresbitero, che tuttavia non ha cura d’anime. Veramente in questa, come nelle altre due collegiate, ogni anno sono eletti i canonici che amministrano le parrocchie. Ciascuna collegiata, nel tempo di Quaresima, ha il proprio predicatore. In Piedimonte esistono pure quattro monasteri. Tre sono di uomini: San Domenico, San Francesco dei Cappuccini, e dei Carmelitani, e uno di donne, delle Monache di San Benedetto, che vivono sotto la cura e l’obbedienza dell’ordinario diocesano, e osservano la clausura secondo la forma del sacro Concilio Tridentino e i decreti dei Sommi Pontefici.
Prata ha una chiesa patrimoniale o ricettizia, in cui sono un archipresbitero, con cura d’anime, e un economo nella funzione canonica di abate di San Pancrazio. Inoltre esistono in Prata anche due monasteri: di San Francesco dell’Osservanza, e di Sant’Agostino. Il paese di Sant’Angelo ha tre parrocchie e solamente un archipresbitero, che non ha cura d’anime né redditi. Le tre parrocchie sono rette, singolarmente, da tre parroci. In Sant’Angelo esiste il solo monastero dei Celestini. Letino ha una chiesa parrocchiale ricettizia, cui sono iscritti molti sacerdoti, ma al solo archipresbitero spetta la cura delle anime. Ailano ha un parroco archipresbitero e altri sacerdoti e chierici. Pratella ha un archipresbitero, cui è demandata la cura delle anime. In Valle, infine, si reca l’archipresbitero di Prata, che attende alla cura delle anime. In questa diocesi esistono altri casali che, per brevità, tralascio.
In tutti questi luoghi si vive seguendo l’insegnamento cristiano, né vi è alcun sospetto d’eresia. Visito ogni anno l’intera diocesi e dispongo che sia impartita ai bambini la dottrina cristiana. Faccio osservare i sacri concili, soprattutto il Tridentino, le bolle e le costituzioni dei Sommi Pontefici. Comando che siano santificati i giorni festivi e che i matrimoni siano officiati secondo il rito. Ogni anno si celebra un sinodo nella chiesa cattedrale in Alife, in cui si stabiliscono i decreti e le ordinazioni che sono necessarie a riformare l’intera diocesi, mantenendola integralmente nella tradizione cristiana. Ho fatto restaurare la chiesa cattedrale, quasi crollata, e la casa episcopale, bisognosa di riparazione. In Piedimonte ho comprato e aggiustato un palazzo, poiché i vescovi miei predecessori desideravano una degna residenza. Ho piantato una vigna; la mensa vescovile non possedeva prima d’ora alcuna vigna. Questo è lo stato della Chiesa e dell’intera diocesi alifana, che io brevemente ho esposto in questo mese di maggio 1619.
Fratello Valerio Seta, vescovo alifano.
1621
Lo stato della Chiesa alifana è riferito da fratello Valerio Seta, veronese, vescovo di quella Chiesa, alle sacre soglie degli Apostoli, per il quinto triennio, nel mese di marzo 1621.
La Chiesa alifana è sita nel Regno di Napoli, suffraganea del metropolita beneventano. Oltre la città di Alife, la diocesi comprende sette terre: Piedimonte, Prata, Sant’Angelo, Letino, Ailano, Pratella e Valle di Prata, ciascuna con un proprio archipresbitero. La chiesa cattedrale ha il capitolo, comprendente dieci canonici; tra questi vi sono due dignità: l’archidiaconato e il primiceriato; del tutto privi di redditi. Questa stessa chiesa è la sola in Alife che abbia cura d’anime. I vescovi, ormai da molti anni, per via dell’aria malsana, sono stati costretti ad abbandonare Alife per Piedimonte, a tre miglia di distanza; però, nelle solennità e nelle funzioni pontificali, i presuli si recano in cattedrale. In Alife esistono due monasteri: dei Conventuali di San Francesco, e quello dei Celestini.
Piedimonte ha tre collegiate: la prima è la chiesa di Santa Maria Maggiore, dove esistono dodici canonici; la seconda è la chiesa sotto il titolo dell’Annunziata, la terza si chiama Santa Croce. Il numero dei presbiteri e dei chierici in questa terra è enorme, superando i duecento. Nella Collegiata di Santa Maria Maggiore vi è un archipresbitero, che non assolve la cura delle anime. Veramente in questa, come nelle altre due collegiate, tra i canonici si eleggono due che svolgono il ministero divino di parroci. Ogni collegiata, in tempo di Quaresima, ha un predicatore. A Piedimonte ci sono quattro monasteri, di cui tre di uomini: San Domenico, i Carmelitani, e i Cappuccini; e uno di donne, delle monache di San Benedetto, che vivono sotto l’obbedienza dell’ordinario diocesano e osservano la clausura, secondo la forma del sacro Concilio Tridentino.
Prata ha una chiesa patrimoniale, o ricettizia, in cui c’è un archipresbitero che amministra la parrocchia, e un economo che porta il titolo di abbate di San Pancrazio. Esistono in Prata inoltre due monasteri: l’uno di San Francesco dell’Osservanza, l’altro di Sant’Agostino. Il paese di Sant’Angelo ha quattro parrocchie, ma soltanto un archipresbitero che non ha cura d’anime né redditi; queste parrocchie sono rette, singolarmente, da quattro curati. In Sant’Angelo c’è il solo monastero dei Celestini. Letino ha una chiesa parrocchiale ricettizia, contenente molti sacerdoti; tuttavia al solo archipresbitero spetta la cura delle anime. Ailano ha un parroco e altri sacerdoti e chierici facenti capo alla stessa chiesa. Pratella ha un archipresbitero con cura d’anime. In Valle di Prata c’è un archipresbitero che ha cura d’anime. Queste ultime due chiese, di Pratella e di Valle di Prata, hanno un congruo numero di sacerdoti. In diocesi esistono altri casali, che tralascio per dovere di brevità.
In tutti i luoghi di questa diocesi si vive cattolicamente e, che io sappia, non esiste sospetto d’eresia. Annualmente visito l’intera diocesi. Impartisco che sia insegnata ai bambini la dottrina cristiana. I sacri concili, e soprattutto il Tridentino, le bolle e le costituzioni dei Sommi Pontefici faccio osservare, così come ordino che siano santificati i giorni festivi. Ogni anno in cattedrale si celebra il sinodo, dove si stabiliscono i decreti e le ordinazioni che servono a riformare l’intera diocesi in modo che si conservino integri i costumi cristiani.
Ho fatto rimettere a coltura i terreni della Chiesa non lavorati, e parzialmente allagati, sia pure non senza grandi lavori e considerevoli spese, tanto che i redditi ecclesiastici sono aumentati sensibilmente. Ho fatto ricostruire quasi dalle fondamenta il convento delle monache di San Benedetto, istituito in Piedimonte subito dopo il Concilio di Trento, poiché prima non aveva neppure la forma di monastero; ora invece ha celle, un dormitorio e un chiostro ma non raggiunge ancora un ricercato decoro.
La chiesa collegiata di Santa Croce, in Castello, che per la sua angustia non poteva accogliere molti fedeli, essendo vetusta, con muri sconnessi, e illuminata da poca luce, aveva bisogno di essere riedificata; così l’ho fatta ricostruire, fin dalle fondamenta, più bella e più spaziosa. Questo è lo stato della Chiesa alifana, che governo da tredici anni, presentato al nostro Beatissimo Padre Gregorio XV, cui umilmente bacio i piedi.
Fratello Valerio Seta, vescovo alifano.
La sesta e ultima relazione di Monsignor Valerio Seta, presentata in Roma il 24 marzo 1624, è identica alla precedente, quella del 1621, e non aggiunge nulla di nuovo.
Monsignor Girolamo Maria Zambeccari
Monsignor Girolamo Maria Zambeccari (al secolo Jacopo) nacque a Firenze il 26 gennaio 1575 dall’aristocratico bolognese Lepido e da Camilla Fortunati. Aveva un fratello, Marcantonio, esponente del Senato di Bologna. Il padre, Lepido (figlio naturale di monsignor Pompeo Zambeccari, vescovo di Sulmona e nunzio apostolico presso il Re di Portogallo), era cameriere del gran duca di Toscana e proveniva da una nobile e antica casata di tradizione guelfa, autorevole nella vita pubblica cittadina, e annoverata tra le quaranta famiglie più in vista di Bologna insieme ai Malvasia, ai Gozzadini, ai Pepoli e ai Bentivoglio. A Firenze i padrini di battesimo del piccolo Jacopo furono il capitano di ventura Mario I° Sforza, conte di Santa Fiora, e Virginia Savella de Vitelli. Non abbiamo informazioni certe della sua infanzia e adolescenza, ma sappiamo che il 9 gennaio 1593 s’immatricolò alla Facoltà di Diritto dell’Università degli Studi di Bologna, dove a diciannove anni, il 6 dicembre 1594, conseguì la laurea in utroque iure, cioè in diritto civile e canonico. Fu ricevuto poi, il 30 aprile 1598, a ventitré anni, nell’Ordine dei Domenicani. Da un profilo biografico, molto accurato, del presule alifano, scritto da Herman H. Schwedt, apprendiamo che il giovane Zambeccari, dopo il noviziato, cambiò il nome Jacopo in Girolamo Maria e l’11 ottobre 1603 fu ammesso alla specializzazione come studente formale presso lo Studio dei Domenicani a Bologna. Insegnò teologia fino al 1615, come lettore, in uno o più conventi della provincia domenicana utriusque Lombardiae (della Lombardia inferiore, con sede a Bologna, e della Lombardia superiore, con sede a Milano nella basilica di S. Eustorgio). Con un decreto del 29 luglio 1615 i cardinali della Congregazione romana dell’Inquisizione designarono Monsignor Zambeccari come inquisitore di Reggio Emilia. Da pochi mesi aveva compiuto i quaranta anni, età minima prevista per gli inquisitori. Si mostrò subito inflessibile nei vari processi che istruiva, riguardanti, quasi tutti, casi di condotta disdicevole: bestemmie, bigamia, molestie sessuali (sollicitatio ad turpia). Herman H. Schwedt riferisce che varie volte il prefetto della Congregazione dell’Indice si rivolse a Zambeccari per affrontare questioni legate alla circolazione di libri proibiti, con lettere firmate dal cardinale Roberto Bellarmino. Papa Paolo V, nella Congregazione del Santo Uffizio del 5 novembre 1615, ordinò a monsignor Zambeccari di procedere non solo contro li giudei, ma ancora contro li medesimi cristiani che non si vergognano né lasciano di servirli. Durante il suo ufficio, tra il 1617 e il 1618, s’imbatté in una notevole disavventura, mentre perseguiva tre presunti eretici, suscitando l’ira del principe sovrano di Correggio, Giovanni Siro da Correggio. È da tener presente che il tribunale dell’Inquisizione, sia pure stabilito formalmente a Reggio Emilia, aveva esteso la propria giurisdizione anche a Correggio. Vediamo come si svolsero gli eventi secondo la ricostruzione dello storiografo correggese Quirino Bigi:
Certi fratelli Pistolazzi e Francesco Riseghini, sospetti di opinioni eterodosse, per ordine del Santo Uffizio furono carcerati e posti nella rocca di Correggio. Il domenicano Girolamo Zambeccari si lagnava col principe Siro che l’Inquisizione non fosse abbastanza assistita in Correggio dal braccio secolare, e chiedeva la consegna dei medesimi mentre pendeva il processo. Nell’ottobre 1617, Zambeccari, accompagnato da una turba di sgherri, venne a Correggio. E senza preavvertire chicchessia, s’impadronì con violenza degli accusati e del custode, traducendoli a Reggio. Il giovane principe, preso da sdegno a tanto oltraggio, fece inseguire lo Zambeccari, ordinando che fosse ben bastonato. Il frate fu raggiunto a mezza strada; fu maltrattato e coperto di ferite; ma non morì. Paolo V, irritato per le conseguenze di questo scandalo, citò davanti all’Inquisizione il principe Siro, che dové costituirsi nelle carceri del Santo Uffizio in Milano, ove era stato stabilito che si tenesse il processo. Il Santo Padre fu ben presto convinto del delitto per le deposizioni di Girolamo Balbi, uno dei sicari.
Nicole Reinhardt, con uno scrupoloso scavo archivistico, ha riportato alla luce i documenti che testimoniano i reati compiuti dal principe Siro contro i familiari di monsignor Zambeccari, particolarmente contro l’anziano padre Lepido e il fratello Marcantonio, oggetto di reiterate prepotenze. Il prelato, in una lettera autografa indirizzata al cardinale Scipione Borghese, scrive di tentativi fatti più volte contro la vita di mio fratello secolare [Marcantonio] e altri parenti… Nel 1619 fu trasferito alla sede dell’Inquisizione di Faenza. Presumibilmente a causa delle efferate sregolatezze del principe Siro, nel maggio 1620 monsignor Zambeccari diede le dimissioni dall’Inquisizione, preoccupato per la propria incolumità, rifugiandosi a Bologna, dove rimase fino al 7 aprile 1625, quando fu nominato vescovo di Alife. Insediatosi nella diocesi alifana, gli si pararono davanti nuovi e insormontabili ostacoli, che si materializzarono in un durissimo conflitto contro il signore di Piedimonte, il duca Alfonso II Gaetani di Laurenzana, che esercitava un minuzioso controllo feudale, volendo comandare completamente, senza riconoscere alcun limite giurisdizionale. La lotta tra i due fu serrata e senza esclusione di colpi. Al culmine dello scontro il duca tentò di far uccidere con del veleno Monsignor Zambeccari mentre desinava. Il vescovo si salvò, ma morirono dei suoi aiutanti e il giovane e unico nipote, figlio di Marcantonio. Per le funeste insidie del duca e perché oggettivamente il clima a Piedimonte si era fatto pesante, il prelato ritornò a Bologna da dove, il 27 maggio 1631, scrisse una commovente lettera al cardinale Francesco Barberini, elencando i soprusi patiti e attestando un’incrollabile fede nella Chiesa:
Eminentissimo e Reverendissimo signor Cardinale Francesco Barberini,
Le espongo ciò che il duca di Laurenzana [Alfonso II Gaetani], quest’anno, ha fatto contro di me, vescovo titolare della diocesi di Alife. Egli ha fatto seminare i territori del vescovato e ha fatto attentare contro la vita mia e dei miei aiutanti, poi, sciogliendo gagliardamente il freno, ha intaccato, in mia assenza, la giurisdizione ecclesiastica. Dio ha tollerato per lungo tempo che si sopportasse quest’oppressore della Chiesa. Il duca non ha permesso ai funzionari regi di entrare nella sua terra di Piedimonte (dove anche il vescovo dimora) per fare alcuni atti di giustizia. Anzi ha dimenticato di essere suddito e feudatario, quindi immediatamente è stata mandata dal viceré di Napoli una compagnia di soldati spagnoli, nel suo feudo, per carcerarlo. Il duca però è fuggito e i soldati continuano a stare a Piedimonte, mentre i giudici criminali istruiscono un processo contro di lui. Chissà se Dio permetterà ai giudici di trovare chiare tracce del tentato assassinio che il duca ha fatto perpetrare contro di me, delitto in cui sono morti i miei assistenti e un mio nipote. Per il male fatto a me e alla mia famiglia, mi è stato concesso dalla Sacra Congregazione Concistoriale di poter rinunziare alla mia Chiesa [Diocesi]. In verità ci sono molti che mi richiedono di rinunziare alla mia Chiesa, promettendo ricompense, ma io non accetto queste offerte né voglio saperne.
Fratello Girolamo Maria Zambeccari, vescovo alifano.
Per converso, volendo ricostruire una realtà opposta al vero e senza pregnanti riscontri fattuali, le persone dell’entourage ducale si mossero in senso unidirezionale, mettendo insieme documenti che servivano a screditare il vescovo, descrivendolo come in preda a delle ubbie. Raffaello Marrocco riportò alla luce, in Memorie storiche di Piedimonte d’Alife, un lungo atto d’accusa, suddiviso in ben quattordici punti, contro monsignor Zambeccari, scritto nel 1633 da un autore ignoto, ma molto probabilmente riconducibile a qualcuno che gravitava intorno alla corte ducale. Vale la pena riportarlo integralmente nei passi salienti: 1°. L’anno passato [1632] il vescovo Girolamo Zambeccari scomunicò in pubblica piazza [Piazza del Mercato], vestito pontificalmente, col far sonare le campane all’armi, il Signor Duca di Laurenzana [Alfonso II Gaetani], accusato di molti delitti, perché costui fece carcerare il suo maestro d’atti, laico. 2°. Non vuole che i preti delinquenti si possano far carcerare dalla corte secolare e perciò tutti gli ecclesiastici vanno armati e quasi tutti i delitti si commettono dai preti e di notte. 5°. Per sollevare il popolo contro i feudatari ha fatto un editto in cui comanda che ogni giorno i sacerdoti si radunino a recitare le litanie e le altre orazioni contro l’oppressione dei preti e dei poveri. 9°. Scomunicò tredici deputati dell’Università di Piedimonte, che avevano votato a favore dell’imposizione di una certa tassa e che erano i tredici migliori cittadini di Piedimonte, ed essendo costoro andati a trovare il vicario episcopale per appellarsi alla scomunica, si vide, dalla sua finestra, il vescovo, che cominciò a ingiuriare i deputati, chiamandoli eretici, e si fece notare mentre impugnava due pistole, precisamente un archibugio e un archibugetto, dicendo che voleva tirar archibugiate. Né mai volle assolvere detti scomunicati se l’Università non gli avesse pagato trecento ducati. 12°. Cita in giudizio tutti i governatori che non gli stanno bene.
Il conflitto tra il presule e il duca ebbe finalmente termine con il trasferimento alla diocesi di Minervino di monsignor Zambeccari, dopo che quest’ultimo, l’11 aprile 1633, fece uno scambio di sede con il vescovo Gian Michele De Rossi. Purtroppo mancano notizie sull’episcopato di monsignor Zambeccari in Puglia. Tuttavia, come apprendiamo da un pregevole libro di Maria Celeste Cola, negli anni in cui il prelato era al governo della diocesi pugliese scrisse un memoriale, conservato in una filza miscellanea presso l’Archivio Segreto Vaticano, che reca in calce l’intestazione Informatione delli Signori Zambeccari. Il libro di memorie contiene l’insieme dei documenti prodotti dalla famiglia Zambeccari per la causa contro la spoliazione, da parte della Camera Apostolica, dei beni di monsignor Pompeo Zambeccari, nonno paterno di Girolamo Maria. I beni immobili, tra cui l’attuale Palazzo Valentini, a Roma, che con la bolla di Pio V, del 3 marzo 1564, erano stati confiscati al prelato bolognese Pompeo Zambeccari, furono restituiti alla sua famiglia da Sisto V, nel dicembre 1587, dietro pagamento di mille scudi d’oro al Depositario Generale. Le fonti sono ancora povere di notizie sugli ultimi anni di monsignor Zambeccari. Nella primavera del 1635, probabilmente a causa di una malattia, diede le dimissioni da vescovo di Minervino. La morte lo colse a Roma il 29 dicembre 1635.
Due relazioni, dal 1626 al 1632
Il primo resoconto di Monsignor Zambeccari è una descrizione analitica di ampio respiro del territorio diocesano e fornisce una plastica rappresentazione, di taglio sociologico, della realtà delle cose, sia civili sia ecclesiastiche. Per la prima volta leggiamo i dati demografici disaggregati di tutti i paesi diocesani, apprendendo inoltre i nomi delle rispettive famiglie feudali. È indagato con cura anche l’aspetto meramente finanziario dei monasteri, di cui si riporta puntualmente il reddito. Sono riferiti con precisione pure i nomi e i cespiti delle confraternite. Monsignor Zambeccari, per l’appunto, istituì la Confraternita della Morte nella chiesa di San Rocco, a Piedimonte.
1626
Adempiendo la costituzione della felice memoria di Sisto V, che prescrive di recarsi alle soglie degli Apostoli, fratello Girolamo Maria Zambeccari, vescovo alifano, in questa prima visita, ha ritenuto opportuno dire le seguenti cose sullo stato del suo episcopato e della sua diocesi.
È in Terra di Lavoro vicino al fiume Volturno, in una pianura circondata da colli e monti, la città di Alife, una volta, come dicono, di millesettecento fuochi (nuclei familiari), ora invero quasi distrutta dalle ingiurie del tempo e da varie guerre, e ridotta ad appena cinquanta fuochi. L’aria della città, a causa degli stagni che la circondano, è ritenuta insalubre dagli stessi abitanti, tanto che nessuno osa viverci a lungo senza temere un concreto pericolo. Pertanto i vescovi, da molti anni a questa parte, hanno scelto di abitare a Piedimonte, che dista dalla predetta città tre miglia. Esiste in Alife una chiesa cattedrale sotto il titolo di San Sisto; vi è sepolto il corpo del predetto santo papa e martire, donato da papa Anacleto al conte Rainulfo, al tempo in cui era signore della città, poiché quest’ultimo, con Roberto, principe dei capuani, si recò in aiuto del papa oppresso dalla guerra. Il corpo di San Sisto, dalla basilica romana di San Pietro Apostolo fu portato in questa città, come si apprende da un vetustissimo libretto liturgico edito nella città alifana, che si recitava a guisa di preghiera, nel giorno della traslazione delle sacre reliquie. Sebbene non si conosca precisamente il luogo esatto della sepoltura del sacro corpo, da tradizione si sa che fu collocato sotto l’altare maggiore della cattedrale, dov’è venerato. Poiché un certo vescovo alifano desiderava indagare la verità, si narra che dal fosso scavato erompesse improvvisamente una quantità d’acqua così grande che non valeva la pena portare a termine l’opera intrapresa, e tutto rimase inesplorato.
Sono conservati in una cassetta quadrata alcuni frammenti di ossa, i cui nomi consumati dalla vetustà non si riescono a leggere. La cattedrale è abbastanza ampia ma ornata modestamente, tanto che sembra più una chiesa rurale che una di città. Le vesti sacre sono quasi lise e hanno bisogno di essere rinnovate, a ciò sta provvedendo Fratello Girolamo a proprie spese. Nella chiesa cattedrale ci sono dieci canonici e due dignità: il primiceriato e l’archidiaconato. Il reddito totale dei canonici raggiunge la somma di circa quaranta ducati annui, tutti computati; le dignità invero non hanno alcun cespite e sono vacanti. I singoli canonici che sono in città, amministrano nel corso dell’anno la cura delle anime, con l’approvazione del vescovo; oltre ai canonici in Alife ci sono due sacerdoti e quattro chierici. In cattedrale ci sono tre confraternite: a) di San Sisto, con un reddito annuo di venticinque ducati; b) del Santissimo Sacramento, con circa ottanta ducati annui; c) del Santissimo Rosario e di Santa Caterina, con nessun reddito certo. C’è in Alife il monastero dei Frati Minori di San Francesco, con un reddito annuo di centoventi ducati circa, in cui vivono tre sacerdoti e un servo; il convento ha anche una chiesa sotto il titolo di San Francesco. Inoltre c’è in Alife il monastero dei Frati Celestini, fuori le mura, sotto il titolo di Santa Maria delle Grazie, con un reddito annuo di quattrocento ducati, che ha quattro sacerdoti e due servi. Esiste in detta città l’abbazia di Santa Maddalena, appartenente per diritto alla famiglia de Gargaliis, con un reddito di duecento ducati annui. Si annovera in Alife pure una commenda, volgarmente detta grangia, dei Cavalieri Gerosolomitani, dall’annuo reddito di duecento ducati. La residenza vescovile sembra più una casa in rovina che una degna dimora e, come ha già esposto Fratello Girolamo, non è più abitata dai presuli. Il reddito della mensa vescovile ammonta a circa ottocento ducati annui. Fratello Girolamo ha istituito in diocesi dei depositi per dispensare cibo ai poveri e ai luoghi pii. Nell’intera diocesi si celebra secondo il rito romano di Pio V e di Clemente VIII. Fratello Girolamo ha visitato annualmente l’intera diocesi, ha disposto che nelle chiese fosse insegnata la dottrina cristiana e ha amministrato il sacramento della confermazione. Inoltre Fratello Girolamo ha preteso che la forma del Concilio Tridentino fosse osservata scrupolosamente e ha difeso con fermezza la giurisdizione ecclesiastica, prima di lui pressoché estinta, ma ora quasi dappertutto ripristinata. Non sono mancati feudatari ostili, come il duca di Piedimonte, Alfonso II Gaetani di Laurenzana, funzionari regi persecutori, lettere minatorie che facevano temere l’espulsione di detto vescovo dal Regno di Napoli; tutte evenienze che il presule ha attraversato incolume, benché danneggiato, come ben conoscono gli illustrissimi cardinali della Sacra Congregazione dei Vescovi, di cui spesso si è implorato il giusto aiuto. Fratello Girolamo non ha trovato eretto un seminario in questa diocesi, a causa della povertà, e con tutte le forze ha cercato di farlo costruire, sperando in un aiuto della Sede Apostolica. Il numero dei presbiteri e degli altri chierici dell’intera diocesi è di quasi trecento persone. La diocesi si divide in sette terre: Piedimonte, con quattro casali, Sant’Angelo, con due, Ailano, Pratella, Prata, Valle e Letino. Il paese di Piedimonte, che dista da Alife tre miglia, è diviso in due parti quasi contigue: il borgo di Piedimonte e la Vallata. Tutta Piedimonte, che beneficia di aria salubre, di ottime acque e di ogni cosa necessaria al vivere umano, conta quasi diecimila abitanti che, in gran parte, sono impegnati nella trasformazione e nella mercatura della lana. In Piedimonte il vescovo abita in un palazzo che il suo predecessore ha comprato per trecento ducati. Signore temporale di Piedimonte è il duca di Laurenzana, feudatario pure di Alife, appartenente alla famiglia Gaetani, patrizio napoletano; per causa di costui Fratello Girolamo patì molto, come ben sanno gli illustrissimi cardinali. A Piedimonte si trova la Collegiata di Santa Maria Maggiore, con dodici canonici; un archipresbiterato, per la cura delle anime, è assegnato alternatamente fra i detti canonici ogni anno, previa approvazione vescovile. L’intero reddito dei canonici ammonta a ottanta ducati annui. La chiesa di Santa Maria Maggiore è sufficientemente ornata di tutte le cose necessarie al culto divino, e ospita la Confraternita del Santissimo Sacramento, che ha un reddito annuo di circa ottanta scudi. In Piedimonte esistono: a) la Confraternita della Morte, senza un reddito certo, per dare sepoltura caritativa a quelli che muoiono violentemente; b) la Confraternita di Santa Maria di Costantinopoli, con un reddito annuo di circa ventiquattro ducati. Fuori del paese c’è la chiesa di Santa Maria Occorrevole, dove si trovano quattro sacerdoti secolari che vivono in comune, con un reddito annuo di quasi seicento scudi. L’Università di Piedimonte e i duchi di Laurenzana pensano di essere i patroni della chiesa e sostengono che il vescovo non possa farvi la visita pastorale. Per di più, i predetti sacerdoti non reputano di dovere rendere conto, al vescovo, dell’amministrazione della chiesa, contravvenendo in questo modo al canone tridentino. In Piedimonte c’è il monastero dei Domenicani, che comprende anche la chiesa di San Tommaso d’Aquino, con un reddito annuo di circa seicento ducati; nel convento domenicano abitano otto sacerdoti, quattro studenti, un lettore di filosofia e quattro servi laici. Nella chiesa dei Domenicani esiste la Società del Santissimo Rosario, con un reddito annuo di circa duecento ducati, che si prende cura del Monte di Pietà, cui destina parte dei proventi; c’è inoltre in detta chiesa anche la Confraternita del Santissimo Nome di Dio, con un reddito annuo di circa cinquanta scudi. In Piedimonte si trova il monastero dell’Ordine dei Cappuccini di San Francesco, in cui vivono dodici sacerdoti e dodici laici; questi ultimi producono vesti di lana per l’uso dei frati dell’intera provincia. A Piedimonte si trova pure il monastero dei Frati Carmelitani, dal reddito annuo di circa ottocento scudi, in cui vivono sei sacerdoti e due servi laici; detto convento ha una chiesa sotto il titolo di Santa Maria del Carmelo, in cui c’è l’omonima confraternita, che ha un reddito annuo di circa cento ducati. In Piedimonte esiste inoltre il monastero dell’ordine delle monache di San Benedetto, sotto il titolo del Santissimo Salvatore, con un reddito annuo di circa milleduecento scudi, in cui vivono trenta suore di clausura e alcune educande.
Nel borgo di Vallata c’è la chiesa collegiata della Santissima Annunziata, che ha solo sei canonici e nessuna dignità ecclesiastica, con un reddito annuo, compresi gli incerti di stola, di circa sessanta scudi; nella chiesa vi sono sedici sacerdoti, senza un reddito certo, e venticinque chierici. La chiesa dell’Annunziata è abbastanza ampia e ornata di tutte quelle cose necessarie al culto divino. Vi sono due confraternite: del Santissimo Sacramento, con reddito annuo di circa cento scudi, e della Santissima Annunziata, con reddito annuo di trecento ducati, che ha cura di un ospizio per i poveri, i forestieri e gli infermi. In Castello si trova la chiesa collegiata di Santa Croce, con sei canonici, il cui reddito, diviso tra i singoli, in totale raggiunge la cifra di sessanta ducati. In detta chiesa vi sono inoltre dieci sacerdoti, senza reddito certo, e quindici chierici; l’edificio sacro è abbastanza ampio ed è stato costruito grazie alle elemosine e a donazioni sia pubbliche sia private, anche di Fratello Girolamo. Nella chiesa di Santa Croce esistono: a) la società del Santissimo Sacramento, con un reddito annuo di circa cento ducati; b) la Confraternita del Santissimo Rosario, senza alcun reddito certo. Nel casale dello Scorpeto, in terra di Piedimonte, ci sono quindici fuochi e la chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, senza alcun reddito certo, in cui, nei giorni festivi, si celebrano le sante messe grazie all’elemosina del popolo. Nel casale di Sepicciano, di settanta fuochi, in terra di Piedimonte, si trova una piccola chiesa rurale sotto il titolo di San Marcello, in cui, ogni giorno, per un legato testamentario della famiglia de Confredis, si celebra una messa. Nel casale di San Potito, di circa novanta fuochi, vi è una chiesa rurale sotto il titolo di Santa Caterina; il curato di detta chiesa percepisce un reddito annuo di circa trenta ducati. Nel casale di Calvisi, di quaranta fuochi, si trova una chiesa sotto il titolo di San Barbato, con un presbitero curato, che ha un reddito annuo di circa venti ducati. Nel casale di San Gregorio, di circa settanta fuochi, vi è una chiesa sotto lo stesso titolo, San Gregorio, con due presbiteri e due chierici curati che hanno un reddito annuo di circa venti ducati. Esiste in detta chiesa un beneficio ecclesiastico dall’annuo reddito di duecento ducati, ottenuto dalla Sede Apostolica.
Nella terra di Sant’Angelo, di quasi trecento fuochi, feudo del marchese della Pietra (Pietravairano), patrizio genovese della famiglia Grimaldi, esistono tre chiese in cui si assolve la cura delle anime: la prima è Santa Maria della Valle, che gode il titolo di archipresbiterato e ha un reddito di circa quaranta ducati annui; la seconda è San Nicola, con un reddito annuo di circa quaranta ducati; la terza è San Bartolomeo, con un reddito di circa trenta ducati annui. Vi sono, in Sant’Angelo, altri sei sacerdoti, senza reddito certo, e dodici chierici. In Sant’Angelo si trova il monastero dei Frati Celestini, in cui vivono due sacerdoti e un servo; il convento ha una chiesa sotto il titolo della Santissima Annunziata, dall’annuo reddito di circa centosettanta ducati. In Sant’Angelo esistono: la Confraternita del Santissimo Sacramento, con reddito di circa trenta ducati annui, e la Confraternita di San Sebastiano, dall’annuo reddito di circa quaranta ducati. Nella parte, del citato casale di Sant’Angelo, che è detta Raviscanina, ci sono ottanta fuochi circa e un curato che si trova nella chiesa della Santa Croce, con un reddito annuo di circa trecento ducati. Vi sono nella medesima chiesa del casale di Raviscanina quattro sacerdoti, senza alcun reddito certo, e sei chierici. Sempre nella stessa chiesa ci sono: la Confraternita del Santissimo Sacramento, di reddito incerto, e la Confraternita del Santissimo Rosario, con un reddito annuo di circa ottanta ducati.
Nella terra di Ailano, di circa duecento fuochi, di cui signori temporali sono i baroni della famiglia de Penna, vi è un archipresbitero curato, con un reddito annuo di circa venticinque ducati; nella chiesa parrocchiale ci sono due sacerdoti celebranti, con un reddito annuo di quindici ducati ciascuno, e sei chierici. Nella detta chiesa si trovano: la società del Santissimo Sacramento, dall’annuo reddito di venticinque ducati circa, e la società del Santissimo Rosario, con un reddito annuo di quasi venticinque ducati. Esiste in Ailano una chiesa costruita di recente, a spese della famiglia dei predetti signori de Penna, sotto il titolo della Santissima Annunziata e senza alcun reddito. Vi è sempre in Ailano il monastero dei Canonici Regolari, dall’annuo reddito di circa centottanta ducati e senza alcun assistente laico.
In Pratella, di circa ottanta fuochi, il cui dominio temporale spetta ai patrizi napoletani della famiglia Rota, vi è un archipresbitero curato, dall’annuo reddito di circa quaranta ducati; in quella chiesa parrocchiale si trovano: la Confraternita del Santissimo Sacramento, con un reddito annuo di circa duecento ducati, e la società del Santissimo Rosario, dall’annuo reddito di circa ottanta scudi. Esiste in Pratella un ospizio per i poveri e i viandanti, con un proprio reddito di circa centottanta ducati annui. In Pratella, dunque, vi sono un sacerdote, senza alcun reddito certo, e quattro chierici.
In terra di Prata, di circa trecento fuochi, feudo degli stessi signori baroni Rota, vi è una chiesa ricettizia sotto il titolo di San Pancrazio; in detta chiesa ci sono un curato archipresbitero e tre sacerdoti, che spartiscono equamente tra loro il reddito ecclesiastico – quaranta ducati annui ciascuno, per un totale di centoventi ducati – e poi altri dodici chierici. In detta chiesa vi sono: la Confraternita del Santissimo Sacramento, con un reddito annuo di circa trenta ducati, e la società del Santissimo Rosario, dall’annuo reddito di circa venti scudi. In Prata esiste pure il monastero dei Frati di Sant’Agostino, con un reddito annuo di cento ducati circa, in cui vivono due sacerdoti e un servitore; annessa al monastero agostiniano è la Chiesa di Sant’Agostino, dove si trova la Confraternita di San Nicola, dall’annuo reddito di duecento ducati. Al di fuori di Prata si trova una chiesa sotto il titolo di Santa Maria della Misericordia, in cui vi è l’omonima confraternita, dall’annuo reddito di circa settanta ducati. Sempre nella terra di Prata esiste il convento dei Frati di San Francesco dell’Osservanza, in cui vivono sei sacerdoti e due servi, con un annuo reddito di circa centoventi ducati.
Nel casale di Valle, feudo dei predetti signori baroni Rota, si trova una chiesa con un archipresbitero curato, con un reddito annuo di quaranta ducati circa, un sacerdote coadiutore e due chierici. Nella chiesa di Valle ci sono due confraternite: del Santissimo Sacramento, e del Santissimo Rosario, ciascuna con un reddito di circa venticinque ducati annui.
Nella terra di Letino, di circa trecento fuochi, feudo del napoletano marchese de Franchis, vi è una chiesa ricettizia sotto il titolo di San Giovanni, con un archipresbitero e otto sacerdoti, che egualmente dividono tra loro il reddito – trenta ducati annui ciascuno, per un totale di duecentosettanta ducati – e assolvono la cura delle anime. Ci sono in Letino altri dieci chierici. Nella chiesa di Letino ci sono tre confraternite: del Santissimo Sacramento, con un reddito annuo di circa centoventi ducati, del Santissimo Rosario, con un annuo reddito di trenta ducati circa, di Santa Maria del Monte, con reddito annuo di circa seicento ducati, su cui c’è un giuspatronato dell’Università di Letino.
Queste sono le cose sullo stato della Chiesa e della diocesi che Fratello Girolamo Maria ha ritenuto opportuno narrare agli illustrissimi signori cardinali.
Umilissimo servo Fratello Girolamo Maria, vescovo alifano.
1632 (aprile-agosto). Atti della Congregazione dell’Immunità Ecclesiastica
Che il XVII secolo fosse un’epoca di violenza diffusa e di forte instabilità sociale è un’acquisizione storiografica ormai ben consolidata. Emblema dell’indebolimento del controllo governativo e della prepotenza dei feudatari locali è, per antonomasia, il celebre romanzo I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Anche a Piedimonte, tra i mesi di aprile e agosto 1632, il conflitto tra la nobiltà e il clero diventa deflagrante e il procuratore fiscale della diocesi alifana presenta alla Congregazione dell’Immunità ecclesiastica, a Roma, un articolato esposto contro il duca Alfonso II Gaetani di Laurenzana.
La Congregazione dell’Immunità, fondata da papa Urbano VIII nel 1626, aveva il compito di esaminare ogni controversia attinente alla violazione della giurisdizione e dei privilegi ecclesiastici.
Capi d’accusa da parte del procuratore fiscale della diocesi di Alife contro il duca Alfonso II Gaetani di Laurenzana.
Piedimonte, 27 aprile 1632
Alli Eminentissimi e Reverendissimi signori Cardinali della Congregazione dell’Immunità Ecclesiastica.
Eminentissimi et Reverendissimi Signori,
Procede continuamente Don Alfonso [II] Gaetani d’Aragona, duca di Laurenzana, alla depressione della giurisdizione ecclesiastica con violenta usurpazione dei beni et della roba spettanti alla Chiesa et ai luoghi pii, esistenti nel territorio di Piedimonte et altrove [in diocesi di Alife]. Il duca fa tutto ciò con pubblico scandalo e pregiudizio dell’immunità ecclesiastica, contro ogni legge, contro le bolle e le costituzioni pontificie, et contro i sacri canoni, senza timore e rispetto alcuno. Si supplicano umilmente le Eminenze Vostre da parte del procuratore fiscale della corte vescovile di Alife, di dare opportuno rimedio per reprimere la forza del predetto duca, che, di potenza, ha fatto [personalmente] e fatto fare [agli altri] gli atti turbolenti qui descritti e molti altri ancora:
N. 1. Il procuratore fiscale della diocesi di Alife dichiara che il duca ha ordinato, per pubblica utilità e comodo, che fosse costruita una strada rurale tra il territorio di Piedimonte e la città di Alife; la strada è lunga cinque miglia e, su entrambi i lati, sono stati piantati duemila pioppi [mille per lato]. Detta strada ha attraversato, e guastato, diversi territori e gettato a terra molti beni ecclesiastici, chiese e luoghi pii, con danno e pregiudizio notevole per la Chiesa, come consta dal processo trascritto al seguito della lettera A, al sommario numero 1 et, per esame di cinque testimoni, dato in mano di monsignore segretario della Congregazione dell’Immunità. N. 2. Il duca ha rovinato et, con pubblica profanazione, ha convertito per proprio uso, con esempio dannoso, una chiesa dedicata a San Paolo, in territorio di Piedimonte; poi l’ha fatta distruggere et ne ha occupato il suolo, et sopra di esso ha edificato un’abitazione privata, per mero capriccio, come si vede dal processo al seguito della lettera B, al sommario numero 2. N. 3. Il duca ha mandato uomini armati, e la sua corte secolare, in casa del vicario generale, da dove, a viva forza, fu trascinata via e condotta in prigione la madre del vicario, et altri suoi parenti, et con indegnità, insulti e pubblico scandalo accompagnata nel palazzo del duca, come si vede dal processo al seguito della lettera C, al sommario numero 3. N. 4. Alla presenza di molto popolo, e a viva forza, il duca fece liberare un prigioniero dalle mani della corte vescovile di Alife; et per di più, lo stesso duca, sopraggiungendo armato et accompagnato dai suoi, assaltò il vicario generale et con un bastone tentò di ferirlo alla testa, come effettivamente sarebbe successo se dal popolo astante non fosse stato con forza trattenuto, come consta dal processo al seguito della lettera D, al sommario numero 4.
Supplicanti che il tutto sarà esaminato e per l’opportuno rimedio contro la forza del detto duca, le Vostre Eminenze gradiscano il nostro deferente saluto.
Il promotore fiscale. Il capitolo della cattedrale di Alife. Et altri aderenti.
Sommario dei capi d’accusa contro il duca di Laurenzana.
Sommario 1.
Dal primo processo, segnato con la lettera A. Il duca di Laurenzana ha usurpato i beni ecclesiastici, per aver fatto costruire una nuova strada. L’usurpazione fatta dal duca di Laurenzana, nella costruzione della strada, si prova dalla querela presentata nella corte vescovile di Alife da: a) capitolo et canonici della cattedrale di Alife; b) rettore della chiesa di Santa Maria delle Vergini; c) rettore della chiesa di Santa Lucia di Piedimonte; d) canonici della Collegiata di Santa Maria Maggiore di Piedimonte; e) canonici della collegiata della Santissima Annunziata, in Vallata; f) Dalle deposizioni di cinque testimoni: Paschalis de Grandis; Franciscus Paterni; Ioannes Baptista Baronio; reverendus dominus presbyter Petrus de Gratia; e) reverendus dominus Petrus Hortis.
Sommario 2.
Dal secondo processo, segnato con la lettera B: Il signor duca di Laurenzana ha profanato e demolito la chiesa di San Paolo. Tratta della profanazione, e della demolizione, della chiesa di San Paolo, in Piedimonte, come consta dalla querela presentata dal procuratore fiscale della diocesi di Alife, e dalla deposizione di tre testimoni. La chiesa di San Paolo, che godeva un beneficio trasmesso dalla famiglia de Forma, si trovava in questa terra di Piedimonte, vicino alla Collegiata di Santa Maria Maggiore; è stata distrutta per fare il palazzo ducale più grande.
Sommario 3.
Dal terzo processo, segnato con la lettera C. Tratta della cattura della madre e dei consanguinei del vicario generale, avvenuta nella loro abitazione privata. Si riferiscono, nel dettaglio, gli insulti e la carcerazione patiti dalla madre e dai fratelli del vicario generale della diocesi alifana; ciò si prova dalla querela presentata dal procuratore fiscale diocesano et dalle deposizioni di cinque testimoni.
Sommario 4.
Dal quarto processo, segnato con la lettera D. Vi sono la querela del procuratore fiscale della diocesi di Alife e le deposizioni dei testimoni. Tratta dell’assalto del duca alla corte vescovile per la liberazione di un prigioniero; nell’azione violenta, con bruta forza, fu minacciato e percosso finanche il vicario generale della diocesi di Alife.
1632
La seconda relazione di monsignor Zambeccari presenta, nella sua interezza, la storia dolente e sventurata dei soprusi da lui patiti a causa del duca Alfonso II Gaetani di Laurenzana. Il prelato espone analiticamente l’impenitente protervia del nobile piedimontese, che si mostra spietato come pochi, mentre attua il proprio machiavellico disegno.
Agli Eminentissimi e Reverendissimi Signori Cardinali della Sacra Congregazione del Concilio.
Il vescovo di Alife, fratello Girolamo Maria Zambeccari, umilissimo servitore delle Eminenze Vostre Reverendissime, due anni e mezzo or sono pervenne in Roma, d’ordine di Nostro Signore, et anco per farsi curare le violenti infermità, causate, ad esso et alla sua famiglia, dai veleni propinatigli al suo vescovado, in Piedimonte; per i quali veleni egli è stato più volte moribondo, et un suo unico nipote ex fratre et altri della sua famiglia morti; perciò il vescovo portò a Roma molte scritture appartenenti a questo et ad altri misfatti precisi, alcuni originati dal duca di Laurenzana, et altri non storicamente cagionati da esso, con altre informazioni, che si dovevano impinguare, contro detto duca, partim spettanti alla Congregazione del Santo Uffizio, partim alla Congregazione dell’Immunità Ecclesiastica, partim alla Congregazione del Concilio et partim a quella dei Vescovi; il vescovo lasciò una buona parte di dette scritture in mano di monsignor Fagnani, già segretario della Congregazione dei Vescovi, acciò fossero rispettivamente distribuite et ventilate; et altre scritture furono date alla Congregazione delle Eminenze Vostre Reverendissime sia da Pompeo Ulisse Bianchini, agente di detto vescovo, sia dal signor Stefano Desideri, in vita sua pur agente dell’istesso; altre invece rimasero in mano di detto vescovo e della sua curia ad effetto poi di comporre la relazione ad limina in scriptis. Tuttavia al povero vescovo, dato quasi per disperato dai medici, fu proposta l’aria nativa per qualche tempo; quindi egli si trasferì, con buona et autentica licenza di Nostro Signore, in Bologna; appena giuntovi et messo in mano dei medici, si scoperse il contagio della peste in Bologna, ove il vescovo è stato costretto due anni e mezzo, per li passi chiusi; et avvicinandosi il prossimo triennio per la visita ad limina, supplica le Vostre Eminenze che possa adempiere l’obbligo suo per procuratorem. Supplica pure Nostro Signore che lo lasci stare in Roma per proseguire dette cause davanti alle predette congregazioni, et anco, in questo mentre, per assicurare la propria salute, ob imminens periculum vitae, iuxta Concilium Tridentinum.
Benché il vescovo di Alife, nonostante li malissimi trattamenti di potenza assoluta da parte del duca di Laurenzana, che ha agito in gravissimo disprezzo del clero et della giurisdizione ecclesiastica, abbia con lui proceduto con ogni paterno affetto, procurando con vari mezzi di ridurlo al giusto et al dovere, nientedimeno, vedendolo totalmente indurato, gli è talvolta convenuto dichiararlo pubblicamente scomunicato, il che è stato approvato dalla sacra Congregazione dei Vescovi. In verità il vescovo già una volta assolse il duca, omnibus in pristinum restitutis, che non osservò però l’obbligo di risarcire, a chi si dovesse, ogni spesa, danno et interesse. Il duca è incorreggibile affatto, poiché ha insidiato alla vita del vescovo con veleni di cui oggidì pubblicamente si vanta, fatto che si sarebbe chiarito qui a Roma, in una causa davanti alla sacra Congregazione dell’Immunità, se esso vescovo, allora semivivo, non fosse stato forzato, insieme con tutti di casa sua, ad andare a curarsi in Bologna, dove mancò, per quel veleno, un suo unico nipote, figlio del fratello. Il duca impedì le prove col minacciare alcuni, et fare anco ammazzare il canonico don Fabio De Lellis, il chierico Filippo di Castello, serviente della curia, et tirare archibugiate al canonico don Annibale Ciccarelli, che dovevano ancora essere esaminati nella causa, et finalmente ammazzare il notaro chierico Riccitelli, che aveva scoperto la verità.
In altre parole il duca usurpa tutti i beni ecclesiastici, ingerendosi nello spirituale e gravando, anche indirettamente, sul clero, con impedire per ogni strada, eziandio armata manu, li vicari et li ministri del vescovato nell’esercizio di giurisdizione, come consta per inoppugnabili prove presentate alla sacra Congregazione dell’Immunità dai signori Pompeo Bianchini e Stefano Desideri, agenti del vescovo. Il duca proibisce di istruire i processi per gli omicidi dei predetti chierici et sacerdoti, anzi permette che gli assassini di questi, notoriamente conosciuti per tali, siano liberi di fare quello che vogliono. Detto duca, ultimamente, come corre voce pubblica, ha fatto ammazzare Giovanni Francesco Riccitelli, chierico e notaro episcopale, cui doveva trecento ducati come risarcimento; il duca era stato condannato dal vescovo, delegato dalla sacra Congregazione dei Vescovi, alla refezione dei danni patiti dal chierico Riccitelli per la sua ingiusta carcerazione; minacce sono state perpetrate anche contro la giurisdizione ecclesiastica, violentemente e finanche nella curia vescovile, alla presenza del vescovo e del vicario, dal duca personalmente e dai suoi uomini armati. Il duca si era obbligato di risarcire, in cambio dell’assoluzione dalla scomunica, il predetto chierico Riccitelli che, quattro giorni avanti la morte, nominò un procuratore in Roma per far valere li suoi interessi davanti alla Congregazione dell’Immunità. Il duca, anzi, si era offeso perché il chierico Riccitelli non gli aveva voluto estinguere il debito come, sotto minaccia di vita, aveva in un primo tempo promesso. Il vescovo, per quanto sin qui abbia operato in difesa del clero, et pro sua giurisdizione, non può rimediare agli inconvenienti di conseguenze peggiori, poiché il duca non teme nemmeno le censure, et anzi pubblicamente irride perfino la giustizia ecclesiastica; anzi corre voce che un ignoto monsignore abbia prospettato al duca le segrete assoluzioni della Penitenzieria Apostolica anche in cause difficili. D’altronde qui, nel Regno di Napoli, al vescovo non è permesso d’implorare il braccio Regio della giustizia civile contro i misfatti del duca. Ha perciò il vescovo, in sgravio della sua coscienza, voluto esporre il tutto alle Eminenze Vostre perché si degnino ottenere, col braccio supremo del Sommo Pontefice, che il duca sia chiamato a Roma per giustificarsi e, non comparendo, sia in contumacia condannato alle dovute pene per simili delitti, non essendo possibile reprimerlo altrimenti. Il vescovo si trova in pericolo di vita, com’è noto a tutto il mondo, e chiede che sia esentato dalla residenza o che sia riammesso nel suo ordine religioso come frate semplice, senza titoli né gradi che aveva, quando, per benignità di Nostro Signore, fu elevato al vescovato.
Piuttosto che tornare nel Regno di Napoli, il vescovo si compiace di andare a promuovere la fede ove la Sacra Congregazione de Propaganda Fide giudicherà ci sia bisogno di lui. Il vescovo ha sempre servito la Chiesa, sia come semplice frate sia come inquisitore; anzi ha messo la vita sua e dei suoi parenti, insieme col proprio patrimonio, sempre al servizio della Chiesa, com’è manifesto, e non ha paura di metterla di nuovo per ultimare quel martirio del quale finora la Divina Maestà non l’ha giudicato degno.
Umilissimo servo Fratello Girolamo Maria, vescovo alifano.
Capi d’accusa contro il duca di Laurenzana
1°. Che il duca, de facto e senza assenso apostolico, dipoi richiesto ma non ottenuto, abbia fatto aprire una larga strada senza riguardo delle terre di varie chiese, intaccate et per tal modo occupate; terre da restituire assieme ai risarcimenti per li danni patiti; è incorso ipso iure nella scomunica, benché, per negligenza dei ministri ecclesiastici et anco per mera pietà del vescovo d’Alife, non sia ancora effettiva.
2°. Che il duca sia incorso nella scomunica del papa per la sacrilega demolizione della chiesa di San Paolo, da lui profanata con l’aver usurpato quel fondo et la materia; il duca deve risarcire la detta chiesa o provveder altrimenti all’indennità di quella, arbitrio Summi Pontificis.
3°. Che di notte, in compagnia d’alcuni, abbia violenter et sacrilegamente forzato la porta della chiesa di San Nicola, in Piedimonte, portando istrumenti per scavare, come fece, le ossa dei morti dalla sepoltura, per cercar ivi un preteso tesoro; sopra di che vi sono testimoni de visu et il fatto è noto pure alla curia episcopale; per il che, ipso iure, è incorso nella scomunica del papa.
4°. Il duca ha ottenuto dal vescovo d’Alife, delegato dalla sacra Congregazione dei Vescovi, l’assoluzione dalla scomunica inflittagli per aver tenuto indebitamente carcerato, alcuni mesi, Giovanni Francesco Riccitelli, chierico et notaro della corte vescovile.
Il duca, in actu absolutionis, doveva risarcire, poiché condannato dal vescovo, il detto chierico Riccitelli della somma di trecento ducati, a fronte dei 371 che da quest’ultimo si pretendevano, e benché la sentenza gli sia stata notificata, come pure al tesoriere ducale, non ha mai pagato nulla; perciò il duca, non potendosi giovare della rimessione della scomunica, legata all’estinzione del debito, è stato molti anni insordescente e, di conseguenza, sospetto di fede; sebbene il vescovo avesse potuto pubblicamente dichiarare la recidiva del duca nella scomunica, dopo molte insinuazioni fattegli, l’ha sin qui differita con vana speranza d’emendazione.
5°. Il duca ha procurato, per due anni e in moltissimi modi, che il detto chierico Riccitelli dovesse quietarlo, senza aver ricevuto il dovuto pagamento; ma il Riccitelli ha sempre risposto negativamente alla richiesta del duca e, alla fine di settembre 1632, ha nominato un proprio procuratore in Roma per presentare un’istanza alla Congregazione dei Vescovi al fine di conseguire il suo credito; il duca, appresa la notizia, di lì a pochi giorni ha fatto ammazzare, come corre pubblica voce et fama, il detto chierico Riccitelli; e ora il duca resta scomunicato per il canone Si quis, suadente.
6°. Che il duca abbia offeso e fatto offendere molte persone ecclesiastiche et anche secolari, così nella vita come nella roba, direttamente et indirettamente, non perdonando nulla al medesimo vescovo né alla sua famiglia, come è notorio; anzi il duca pubblicamente se ne vanta et, a suo tempo, si chiariranno molti particolari sul perché sia incorso nella scomunica papale.
7°. Che il duca abbia impedito in vari modi la giurisdizione del vescovo: a) col proibire ai laici di comparire et essere esaminati davanti alla corte vescovile, facendo carcerare i contravvenenti ai suoi ordini et perseguitandoli variamente; b) minacciando nella vita i serventi della detta corte vescovile, essendo corso con bastone et anche con pugnale sfoderato dietro al vicario et ai notari, et tenuto loro insidie in campagna, come si desume dai processi presentati in Congregazione d’Immunità; c) minacciando il vescovo di morte, volendo impedirgli la visita, che si doveva fare per riveder li conti, nella chiesa di Santa Maria Occorrevole, attribuendosi detto duca la totale sovrintendenza di quella chiesa; con il pretesto di un giuspatronato su quella chiesa, confermato da papa Innocenzo VIII al conte di Fondi, il duca non permetteva a nessun delegato episcopale di avvicinarsi a essa; in quel luogo di Santa Maria Occorrevole, ricco d’elemosina più del vescovato, il duca ha messo quattro o cinque preti secolari amovibili, ingerendosi anche nelle cose spirituali, e proibendo, in tutti i modi, al vescovo che ci s’accosti; d) impedendo al vescovo di punire i laici nei casi a lui permessi dal sacro Concilio di Trento, et perciò calunniandolo presso i ministri regi; e) carcerando quelli che compaiono o denunciano alla corte vescovile in causis fidei, perciò il duca è incorso nella bolla Si de protegendis nonostante la ignori volutamente; per tenere a freno simili disordini il vescovo ha già pubblicato detta bolla, facendola affiggere coram populo sia nello stato del duca sia negli altri luoghi della diocesi; f) pretendendo il duca di conoscere il contenuto delle cause di bestemmie ereticali et simili, spettanti al solo vescovo; g) che il duca si sia appropriato delle erbe et dei pascoli della mensa episcopale et di vari ecclesiastici, affidandoli a chi gli piace, senza pagarne cosa alcuna, anzi presumendosi più potente dell’istesso Re di Spagna, che paga li ecclesiastici in Puglia per fruire dei loro pascoli; onde, per tal usurpazione il duca è caduto in scomunica papale; h) che il duca voglia conoscere i danni provocati dalli animali delle persone ecclesiastiche et far loro pagare le pene, usurpando in ciò la giurisdizione del vescovo; i) che il duca, indebitamente, proibisca agli ecclesiastici la pesca, generalmente lecita a ciascuno de jure naturae, minacciandoli di morte; per tal causa è stata tirata un’archibugiata ad un servente del vescovo, è stato bastonato dall’istesso duca un sacerdote della curia vescovile, et poi il duca ha barbaramente trascinato, avendolo legato dietro al suo cavallo, un diacono per averlo trovato presso il fiume e sospettato di pesca; l) che il duca forzi li ecclesiastici a pagar le tasse sui loro patrimoni, eziandio sui beni comprati o donati; e perciò il duca è scomunicato in Coena Domini, avendo usurpato la libertà ecclesiastica e agito contro le disposizioni dei sacri canoni e concili, e contro un decreto della sacra Congregazione dei Vescovi, emanato da papa Paolo V con un breve dell’anno 1609; m) che nella grossa terra di Piedimonte, di duemila e più fuochi, essendovi per l’addietro molti macelli, dove potevano servirsi li ecclesiastici, esso duca abbia ridotto il numero dei macelli soltanto a tre, cioè uno alla Vallata, l’altro a Piedimonte, et il terzo a Castello, dandoli in fitto per seicento scudi annui ognuno; nei macelli, gli ultimi a essere serviti sono li ecclesiastici, cui toccano i rifiuti altrui e i residui inutili, sicché anche in questo caso il duca è scomunicato in Coena Domini per aver impedito deliberatamente la libertà ecclesiastica. Per liberare il clero da tal oppressione, noi supplichiamo umilmente le Eminenze Vostre di far ritornare il tutto in pristinum, o che si dia ordine al vescovo d’istituire un macello per il solo servizio dei religiosi, come si costuma nell’arcivescovado di Napoli et in altri luoghi ecclesiastici; n) il duca è scomunicato in Coena Domini per volere esigere la gabella dai laici che comprano, dal vescovo e dal clero, frutti raccolti nei beni ecclesiastici; esso duca inoltre fa carcerare padri e madri et altri parenti degli ecclesiastici, che procurano di vendere i frutti campestri non necessari al loro sostentamento; il duca esercita pressioni sugli ecclesiastici in modo tale che questi buttino la roba e non trovino alcun compratore; o) il duca ha fatto carcerare et mandare in ruina molti poverelli laici, gravati dalle sue oppressioni e ricorsi alla casa vescovile per avere giustizia, proprio quando il vescovo, in coscienza, procurava di aiutarli; p) facendosi i proclami di qualcuno che desideri farsi ecclesiastico, il duca fa carcerare quest’ultimo in manicis ferreis et compedibus, come è succeduto pochi giorni fa a un tale che aveva domandato di diventar semplice chierico, dopo che, per una giusta causa, era uscito dall’Ordine dei Cappuccini; per di più il duca ha preteso che molte persone uscissero dal clero e tornassero al secolo, trattenendo carcerati i loro genitori e parenti; perciò il duca è caduto più volte nella scomunica papale; q) il duca usurpa il diritto (jus) degli ordini religiosi, particolarmente dei padri Celestini in Alife, con il pretesto che alcuni duchi suoi predecessori abbiano costruito la chiesa di detti padri Celestini; analoghe prepotenze il duca ha commesso, minacciando di morte i sacerdoti, nella chiesa di S. Rocco, in cui l’attuale vescovo ha eretto la Confraternita della Morte et un ospizio per i laici; r) il duca ha impedito più volte che siano lavorati e seminati li territori del vescovo, et talvolta li ha fatti danneggiare dalli bestiami; et, come è succeduto ultimamente, ha fatto appiccare il fuoco a detti terreni. Il duca, dunque, è stato avvisato dal vescovo dimodoché desista dal commettere altri simili delitti. Anzi il vescovo, per mezzo di don Ovidio De Amicis, avvocato con studio in Roma, ha citato il duca davanti alla sacra Congregazione dell’Immunità cosicché quest’ultimo possa discolparsi delle sue azioni. Benché il vescovo sia stato offeso nei suoi affetti più cari, nel suo sangue et famiglia, mai ha agito livore vindictae. Per i fatti su esposti il duca è stato ammonito, et privatamente et in pubblico, dai padri Cappuccini, Domenicani et altri religiosi, et secolari, eziandio dall’eminentissimo cardinale Luigi Caetani, come si può accertare dal contenuto delle lettere responsive che quest’ultimo ha scritto di proprio pugno al vescovo. Nientedimeno il duca, in disprezzo delle sante congregazioni dei Vescovi, del Concilio e dell’Immunità Ecclesiastica, cui sono stati presentati atti contenenti dettagliati particolari, invece di discolparsi, con proterva arroganza, com’è suo solito, dice che preferisce essere giudicato da una corte secolare napoletana e dichiara la propria volontà in una lettera responsiva al sopraddetto don Ovidio De Amicis, di cui si serba l’originale presso il vescovo, riportata qui di seguito:
Piedimonte, 21 settembre 1632
Al dottor Ovidio De Amicis,
Che Dio guardi Roma…
Ringrazio Vostra Signoria dell’avviso che mi dà della volontà che tiene verso di me il vescovo; in risposta Vi dico, che io non ho alcuna lite pendente, né civile, né criminale, né con lui, né con la mensa vescovile, né con la Chiesa, né col clero, perciò non so a che fine costituire costì [in Roma] un procuratore. Se il vescovo ha motivi di rancore contro di me, come lui dice, mi faccia pure citare nel mio competente tribunale; che costà [in Roma], come barone del Regno di Napoli, non posso comparire, senza licenza scritta del mio viceré. Se il vescovo ha pretensioni e ragioni tali che mi necessitino a ricorrere al tribunale di Roma, dichiari esplicitamente le sue liti; poiché, se è vero quello che lui pretende, farò quello che devo; ma se la verità è lontana dal suo umore, io voglio comparire solo davanti ai miei diretti superiori. Stando ben disposto e preparato a litigare insino alla morte, Lei mi faccia dunque il piacer di dar questa risposta al vescovo.
Che Nostro Signore La feliciti.
Al suo servizio
Il Duca di Laurenzana.
Monsignor Gian Michele De Rossi
Monsignor Gian Michele De Rossi (o de Rubeis) nacque nel 1583 a Somma Vesuviana da Marcantonio e Giuditta Marechella. Il 14 maggio 1595 entrò nell’ordine Carmelitano, consacrandosi alla vita religiosa nel convento napoletano del Carmine Maggiore. Si laureò in teologia e, dopo alcuni anni d’insegnamento, ebbe l’incarico di consultore ordinario dell’Inquisizione nel Regno di Napoli. Tra i frati carmelitani ricoprì, gradualmente, ruoli delicatissimi. Dapprima fu padre provinciale in Abruzzo, poi, nel 1622, priore del convento partenopeo del Carmine Maggiore, nel 1624 ricoprì il ruolo di padre provinciale per Napoli e la Basilicata, nel 1628 esercitò l’incarico di priore nel convento generalizio romano di Santa Maria in Traspontina, e nel 1630 divenne procuratore generale del suo ordine presso la Santa Sede. Tra le altre cose moderò il capitolo carmelitano della provincia napoletana, celebratosi a Capua nel 1631. Da papa Urbano VIII, il 10 gennaio 1633, fu designato vescovo di Minervino. Governò la diocesi pugliese soltanto per tre mesi, poiché l’11 aprile 1633 passò al vescovato di Alife, scambiandosi la sede con monsignor Girolamo Maria Zambeccari. Resse la diocesi alifana per poco più di sei anni, morendo cinquantaseienne, il 22 dicembre 1638, a Piedimonte, dove fu sepolto nel convento del Carmine.
Relazione del 1634
Accurata e redatta in modo sorvegliato, l’unica relazione di monsignor De Rossi è un affresco che ben tratteggia, nelle linee essenziali, la condizione diocesana nel XVII secolo. L’industriosa cittadina alle falde del Matese, agli occhi del vescovo, si presentava come rinfrancata da un’aria salubre, decorata da monti boscosi, fecondata da limpide acque, abitata da molte persone, gremita di mercanti di lana, e nulla mancava a un sano sviluppo del consorzio civile. Purtroppo c’era ancora il duca Alfonso II Gaetani di Laurenzana a rendere infelice l’esistenza terrena dei presuli alifani. La cultura piedimontese era pulsante anche per via dello Studio domenicano, dove s’insegnavano teologia e filosofia, mentre Alife appariva ovattata e sonnacchiosa, adagiata sullo sfondo di antiche rovine, vestigia di un glorioso passato.
1634
Io, fratello Giovanni Michele De Rossi, vescovo alifano, in conformità al mio giuramento, sulla costituzione di papa Sisto V, di visitare le soglie dei Santi Apostoli, ogni triennio, da parte dei vescovi italiani, mi son recato personalmente a Roma per il diciassettesimo triennio, non ancora completo, per adempiere il mio dovere. Queste che seguono son le cose che ho ritenuto giusto scrivere sullo stato della mia Chiesa.
Nella provincia campana del Regno di Napoli, vicino al fiume Volturno, c’è una pianura circondata da monti e colli, in cui, semimorta giace Alife, città quasi estinta, che si tramanda di aver contato, un tempo, millesettecento fuochi, adesso invece solamente cinquanta. Alife piange sulle misere reliquie degli antichi. Qui, dove una volta sorgeva una città romana e c’erano fertili campi, ora, per la scarsezza dei residenti e per la povertà dell’Università, il centro abitato muore, circondato dagli stagni, ed è a tal punto deteriorato, nell’aria e nell’acqua, che è pericoloso, per la salute, viverci; ognuno lo ritiene abitabile non senza pericolo di vita. Da questo luogo malsano i vescovi, temendo per la propria salute, decisero di andare via e di abitare, ormai da molti anni, a Piedimonte, dove risiedono nel presente, distante da Alife tre miglia. La chiesa cattedrale alifana è intitolata a San Sisto, poiché ivi è sepolto il corpo del santo, nascosto, per tradizione, sotto l’altare maggiore. La cattedrale si trova al centro della città, ed è ampia; io, il più opportunamente possibile, ho curato di ripararne, a mie spese, la sacrestia e gli altari, adornandoli con sacre vesti e paramenti. La cattedrale ha dieci canonici e due dignità: il primiceriato e l’archidiaconato. Il reddito annuo complessivo dei canonici non supera la somma di quaranta ducati. Le dignità invero mancano di ogni reddito; i singoli canonici esercitano annualmente la cura delle anime in città, con l’approvazione della curia episcopale; oltre ai canonici, detta chiesa annovera anche tre sacerdoti e quattro chierici. In cattedrale ci sono tre confraternite: a) di San Sisto, con un reddito annuo di venticinque ducati; b) del Santissimo Sacramento, dal reddito annuo di ottanta ducati; c) del Santissimo Rosario e Santa Caterina, di nessun reddito certo. Si trova in Alife il convento dei Frati Minori, con una chiesa intitolata a San Francesco; nel convento vivono tre sacerdoti e un laico; il reddito annuo di detto convento è di circa centoventi ducati. Al di fuori delle mura di Alife si trova il monastero dei Frati Celestini, intitolato a Santa Maria delle Grazie, con un reddito annuo di circa quattrocento ducati; in detto monastero convivono quattro sacerdoti e due laici. In Alife vi è anche l’abbazia di Santa Maria Maddalena, di giuspatronato della famiglia de Gargaliis, con un reddito annuo di circa duecento ducati. Il reddito annuo della mensa episcopale è di mille ducati, cui si devono aggiungere: un sussidio di centosessanta ducati, da antico tempo pagato dal corpo ecclesiastico, e un cattedratico, o sinodatico, che, ogni anno, nella festa della Natività del Signore, è corrisposto, anch’esso, dal clero. Si spera che il reddito della mensa vescovile sia più grande in futuro, purché il duca di Laurenzana non trattenga i coloni della mensa episcopale dal versare il tributo; io ho fatto diventare seminabile la terra infruttuosa e silvestre, poi ho dato cento moggi a un colono, ottenendone una rendita annua di settantadue ducati. Ho recuperato i proventi annui dei terreni concessi in enfiteusi, e infine ho adattato la casa episcopale, sita in Piedimonte, facendo costruire i balconi e le scuderie. In questa città di Alife, e nell’intera diocesi, i presbiteri usano il breviario romano dei papi Pio V e Clemente VIII. Ho celebrato un unico sinodo diocesano per la riforma del clero; poi ho fatto pubblicare molti decreti che riguardano i costumi cattolici ed ecclesiastici, secondo la norma del sacrosanto Concilio Tridentino, in modo che l’osservanza verso i precetti cresca, nei giorni, sempre di più. Ho istituito, in ultimo, la figura del depositario in modo che, se ci saranno proventi dai premi pecuniari, saranno convertiti in elemosine, secondo quanto prescrive il sacro Concilio Tridentino. Tuttavia il seminario, che secondo un decreto del Concilio Tridentino deve esistere in ogni diocesi, ancora non è stato eretto a causa della povertà. Mi sono adoperato per far costruire il seminario, ma finora i miei tentativi sono stati vani. L’intera diocesi si divide in otto parti, cioè nelle terre: di Piedimonte, con quattro casali, di Sant’Angelo, con un unico casale, di Ailano, di Pratella, di Prata, di Valle, di Letino e di Calvisi, che tutte, personalmente e singolarmente, ho visitato. Ho ordinato, solennemente, di insegnare dappertutto la dottrina cristiana; e dovunque, tra le funzioni della visita pastorale, ho amministrato il Santo Sacramento della Confermazione. La terra di Piedimonte è confortata da un’aria salubre, decorata da monti boscosi, fecondata da acque limpide, abitata da molte persone, gremita di mercanti di lana, e nulla manca alla vita civile. Qui, in Piedimonte, i vescovi conducono la loro vita; e qui, infine, si trova la dimora del signore sia di Piedimonte sia di Alife, che è il duca di Laurenzana. Egli, al secolo, è Alfonso [II] Gaetani, patrizio napoletano, che rende infelice ai vescovi l’amenità di Piedimonte, poiché, prima di tutto, dopo aver perpetrato ogni misfatto, procura che i vescovi vivano in miseria e in povertà. Per questo motivo io, che ho sempre protetto molto energicamente la dignità episcopale e l’immunità ecclesiastica, dallo stesso signore [Gaetani] ho subito danni, infamie, disprezzo e insulti; il duca ha proibito che i suoi sudditi lavorassero nelle campagne del vescovo e ne comprassero i frutti; ha impedito, per di più, che lavorassero da stipendiati alle dipendenze del vescovo, e finanche che gli rivolgessero la parola. E a tal punto giunse l’iniquità del duca che non esitò a ordinare la fustigazione di un colono vescovile; fomentò infine molti misfatti nei confronti del vescovo, come molto dettagliatamente sanno gli Eminentissimi Cardinali della sacra Congregazione dei Vescovi. Nella terra di Piedimonte vi è la Collegiata di Santa Maria Maggiore, con dodici canonici e una dignità di archipresbiterato. Il reddito annuo di ciascun canonico è di cinquanta ducati; la dignità di archipresbiterato non ha altro che il solo titolo. I canonici alternatamente, ogni anno, con l’approvazione della curia episcopale, assolvono la cura delle anime. I sacerdoti, in Santa Maria Maggiore, sono ventotto e trenta i chierici. Nella chiesa molti sono gli ornamenti sacri e vi si trovano, inoltre, reliquie di santi; l’edificio è bello e non manca nulla. Infine, in Santa Maria Maggiore, si trova la Confraternita del Santissimo Sacramento, il cui reddito annuo è di cinquanta ducati. Nella terra di Piedimonte ci sono le confraternite: a) della Morte, con un reddito annuo di quaranta ducati; b) di Santa Maria di Costantinopoli, dall’annuo reddito di venticinque ducati. Sempre nella Terra di Piedimonte ci sono i monasteri: a) dei Domenicani, dall’annuo reddito di seicento scudi. Ci vivono otto sacerdoti, quattro studenti, con un lettore di filosofia, e quattro laici. Nella chiesa del monastero si trova la Confraternita del Santissimo Rosario, con un reddito annuo di duecento ducati, che ha cura del Monte di Pietà, cui devolve le proprie entrate. C’è pure la Confraternita del Santissimo Nome di Dio, con un reddito annuo di cinquanta ducati; b) dei Padri Cappuccini, con dodici sacerdoti e altrettanti laici; c) dei Carmelitani, con un reddito annuo di cinquecento ducati. Vi abitano sei sacerdoti, due laici e la Confraternita del Sacro Scapolare, dall’annuo reddito di cento ducati; d) delle monache dell’Ordine di San Benedetto, con un reddito annuo di milleduecento ducati, in cui abitano quaranta monache e alcune educande. Al di fuori della terra di Piedimonte si trova la chiesa intitolata a Santa Maria Occorrevole, con un reddito annuo di duemila ducati; ci sono quattro sacerdoti secolari, che vivono alla maniera di regolari, e che amministrano quella chiesa, poiché sono anche economi dell’omonima confraternita. L’Università di Piedimonte, e i duchi di Laurenzana, presumono di essere i tutori della chiesa, sostenendo che non possa essere visitata dal vescovo; pretendono inoltre che i preti, ivi abitanti, non siano tenuti a rendere ragione al vescovo dell’amministrazione della chiesa, cosa che, essendo non conforme al sacrosanto canone tridentino, io non ammetto; perciò chiederò conto agli amministratori delle loro azioni e, con tutte le mie forze, tenterò di visitare la chiesa. La terra di Piedimonte si divide in due parti, oltre al medesimo borgo di Piedimonte, delle quali una si chiama Vallata, l’altra Castello. Nella contrada di Vallata c’è la chiesa collegiata della Santissima Annunziata, in cui si trovano sei canonici, con un reddito annuo di sessanta ducati a testa, sedici sacerdoti, senza alcun reddito certo, e venticinque chierici. La chiesa della Santissima Annunziata è ampia, resistente, adeguatamente ornata, provvista di tutto il necessario per il culto divino. Vi sono: la Confraternita del Santissimo Sacramento, con un reddito annuo di cento ducati; e la Confraternita della Santissima Vergine Annunziata, dall’annuo reddito di trecento ducati, che ha cura dell’ospedale dei pellegrini, dei poveri e degli infermi. A Castello c’è la Collegiata della Santa Croce, con sei canonici dal reddito annuo di sessanta ducati a testa, cui appartengono anche dieci sacerdoti, senza reddito certo, e quindici chierici. La chiesa della Santa Croce è stata di recente ricostruita, grazie alle elemosine di persone devote. Vi si trovano: la società del Santissimo Sacramento, dall’annuo reddito di cento ducati; e la Confraternita del Santissimo Rosario, senza un reddito certo. Presso il casale dello Scorpeto, di circa quindici fuochi, che ricade sotto la cura della terra di Piedimonte, vi è la chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, senza un reddito certo, in cui si celebra la santa messa nei giorni festivi, grazie alle elemosine. Presso il casale di Sepicciano, di settanta fuochi, sotto la medesima cura della Terra di Piedimonte, vi è il piccolo santuario di San Marcello, che non ha alcun reddito, in cui quotidianamente si celebra un sacro rito grazie a un pio legato di un certo de Confredis. Nel casale di San Potito, di novanta fuochi, vi è la chiesa rurale di Santa Caterina, il cui curato ha un reddito annuo di trenta ducati. Nel casale di Calvisi, di quaranta fuochi, vi è la chiesa di San Barbato, il cui curato ha un reddito annuo di venti ducati. Nel casale di San Gregorio, di settanta fuochi, c’è un’omonima chiesa, servita da due presbiteri e due chierici, il cui curato ha un reddito annuo di venti ducati. In quella chiesa vi è un beneficio ecclesiastico dall’annuo reddito di venti ducati, approvato dalla Sede Apostolica. Il popolo di San Gregorio sostiene che quel beneficio sia stato conseguito subdolamente, anche se il curato lo considera come cosa propria, poiché si raccoglie dalle decime del fonte battesimale e dalle sepolture, per cui al curato si devono gli alimenti, o decime; tali tributi non possono essere negati al curato.
La terra di Sant’Angelo, di circa trecento fuochi, è sottoposta al marchese della Pietra, patrizio genovese, della famiglia Grimaldi. La terra di Sant’Angelo ha tre chiese e un curato. La prima chiesa, con un reddito di quaranta ducati annui, è quella di Santa Maria della Valle, che ha il titolo di archipresbiterato. La seconda è la chiesa di San Nicola, dall’annuo reddito di quaranta ducati. La terza è San Bartolomeo, con un reddito annuo di trenta ducati. Vi sono inoltre, in detta terra, altri sei sacerdoti, senza un reddito certo, e dodici chierici. La predetta terra ha due confraternite: del Santissimo Sacramento, dall’annuo reddito di trenta ducati; di San Sebastiano, dal reddito annuo di quaranta ducati. Vi è inoltre in Sant’Angelo il monastero dei Frati Celestini, dall’annuo reddito di centosettanta ducati, con una chiesa sotto il titolo della Santissima Annunziata; nel monastero dei Celestini vivono due sacerdoti e un laico. In una parte del casale, che si chiama Raviscanina, dove abitano ottanta fuochi, vi è la chiesa della Santa Croce, il cui curato ha un annuo reddito di trenta ducati. In Raviscanina si trovano quattro sacerdoti e sei chierici; ci sono inoltre due confraternite: del Santissimo Sacramento, senza alcun reddito certo; del Santissimo Rosario, dall’annuo reddito di ottanta ducati. La terra di Ailano, di duecento fuochi, ha come signori temporali i baroni della famiglia de Penna. In Ailano c’è una chiesa, dal reddito annuo di venticinque ducati, il cui curato è un archipresbitero. Nella predetta chiesa vi sono anche due sacerdoti, con un reddito annuo di quindici ducati ciascuno, e sei chierici. La terra di Ailano ha due confraternite: del Santissimo Sacramento, dal reddito annuo di venticinque ducati; del Santissimo Rosario, dall’annuo reddito di venticinque ducati. Si trova in detta terra un’altra chiesa, dal reddito nullo, intitolata alla Santissima Annunziata, costruita a spese dei signori baroni de Penna. In Ailano c’è anche il monastero dei canonici regolari della Santa Croce, o Crociferi, dall’annuo reddito di centottanta ducati. La terra di Pratella, di ottanta fuochi, i cui signori temporali sono i patrizi napoletani della famiglia Rota, ha una chiesa il cui curato è un archipresbitero; detta chiesa, con un cespite annuo di quaranta ducati, ha pure un altro sacerdote, senza un reddito certo, e quattro chierici. La terra di Pratella ha due confraternite: del Santissimo Sacramento, dall’annuo reddito di duecento ducati; del Santissimo Rosario, dall’annuo reddito di cinquanta ducati. La predetta terra di Pratella ha un ospedale, dall’annuo reddito di centocinquanta ducati, per accogliere i poveri e i pellegrini.
La terra di Prata, di trecento fuochi, sotto il dominio temporale degli stessi signori Rota, ha una chiesa il cui curato è un archipresbitero; nella chiesa ci sono altri tre sacerdoti, che dividono i redditi tra loro; a ciascun sacerdote spettano quaranta ducati annui. La terra di Prata ha due confraternite: del Santissimo Sacramento, con un reddito annuo di trenta ducati; del Santissimo Rosario, dall’annuo reddito di venti ducati. Oltre a ciò, in Prata vi è il monastero dei Frati Agostiniani, dall’annuo reddito di cento ducati, in cui vivono due sacerdoti e un servo. Nella chiesa degli Agostiniani vi è la Confraternita di San Nicola, dall’annuo reddito di duecento ducati. Fuori della terra di Prata vi è la chiesa appartenente alla Confraternita di Santa Maria della Misericordia, il cui reddito è di settanta ducati annui. In Prata vi è pure il convento dei Frati di San Francesco, dal reddito annuo di centoventi ducati, in cui vivono sei sacerdoti e due laici.
La terra di Valle, feudo dei medesimi signori Rota, ha una chiesa il cui curato è un archipresbitero; detta chiesa, dal reddito annuo di quaranta ducati, annovera pure un sacerdote coadiutore e due chierici. La terra di Valle ha due confraternite: del Santissimo Sacramento, con un reddito annuo di venticinque ducati; del Santissimo Rosario, dall’annuo reddito di venticinque ducati. La terra di Letino, di trecento fuochi, è sotto il dominio temporale del barone di Cerreto, della famiglia Carafa. Letino ha una chiesa ricettizia, intitolata a San Giovanni, con un archipresbitero e altri otto sacerdoti, che dividono tra loro equamente i redditi ecclesiastici. I sacerdoti della chiesa percepiscono circa trenta ducati annui ciascuno e, con il beneplacito del vescovo, assolvono per tutto l’anno la cura delle anime. Per di più detta chiesa ha pure dieci chierici.
Letino ha tre confraternite: del Santissimo Sacramento, con un reddito annuo di centoventi ducati; del Santissimo Rosario, dall’annuo reddito di trenta ducati; di Santa Maria del Castello, con un annuo reddito di cinquecento ducati, su cui l’Università di detta terra vanta il diritto di giuspatronato. Queste sono le cose che ho ritenuto degne di essere dette alle Eminenze Vostre, alle quali presento la debita riverenza.
Umilissimo servo Fratello Giovanni Michele De Rossi, vescovo alifano.
Monsignor Pietro Paolo de’ Medici
Monsignor Pietro Paolo de’ Medici nacque a Firenze, in data incerta, dal colonnello Orazio e da Camilla della Robbia. Dal 1624 fu canonico di Santa Maria del Fiore, la celebre cattedrale fiorentina. Poco dopo entrò nell’Ordine di Santo Stefano papa e martire dove, il 2 giugno 1652, raggiunse il grado di Balì del Delfinato, cioè di capo e guida di tutti i cavalieri dell’omonima provincia francese. Nominato vescovo da papa Urbano VIII l’undici aprile 1639, amministrò la diocesi di Alife per diciassette lunghi anni fino al 22 ottobre 1656, quando morì a Castello del Matese, per soccorrere i malati di peste. Fu sepolto nella chiesa della Santissima Annunziata, in Piedimonte. Lo storico e padre camilliano Domenico Regi, in Memorie historiche del venerabile P. Camillo De Lellis, e de' suoi Chierici regolari ministri degl'infermi: libri quindici di Domenico Regi della medesima religione [p. 406], scrisse che: Nel mese d’ottobre dell’anno sopraddetto [1656] parimente venne a morte monsignor Pietro Paolo de’ Medici, patrizio fiorentino, il quale essendo anche vescovo nella città di Alife, del Regno di Napoli, dove essendosi avanzato a gran segno il contagio, e facendo gran strage di quel popolo, il detto prelato, per dar animo ai suoi sacerdoti, e acciò che ognuno assistesse all’aiuto del suo prossimo, continuamente, senza timore, se n’andava visitando le case, dove giacevano gli appestati, benedicendoli, confessandoli, e conferendo gli altri sacramenti che si richiedevano, procurando di giovare con efficacia alle anime afflitte ad esso raccomandate. Essendo poi anch’esso colpito dal medesimo male, tutto lieto, ne ringraziava Iddio, supplicandolo a concedergli i riposi del cielo, il cui possesso, ben si può credere essergli stato concesso, stante la sua buona vita e santa morte.
Sei relazioni, dal 1641 al 1654
Monsignor de’ Medici visse la propria missione nel segno del pragmatismo, dando concretezza alle esigenze pastorali. Dalla relazione del 1646 sappiamo che stava per essere edificato, a Castello del Matese, il seminario diocesano da lungo tempo atteso. Il sacerdote Gabriele di Giovannantonio Cittadino, oriundo di Castello e parroco nella chiesa romana di Santa Maria in Monterone, aveva donato la casa paterna e mille ducati per la costruzione del seminario. E ancora, il vescovo, per incrementare il culto divino, mise in un tempietto nella chiesa di Santa Maria Maggiore le reliquie di San Marcellino che, proprio in quegli anni, fu proclamato patrono di Piedimonte. Monsignor de’ Medici influì profondamente sulla fisionomia della diocesi alifana, improntandola a un forte senso di carità cristiana.
1641
Volendo soddisfare al dovere episcopale, secondo la bolla di papa Sisto V, di visitare le soglie degli Apostoli, presento alle vostre Eccellentissime Signorie lo stato della Chiesa alifana.
La Chiesa alifana, sita in Terra di Lavoro, nel Regno di Napoli, accanto al fiume Volturno, è suffraganea della metropoli beneventana. Da quanto si tramanda, la città di Alife anticamente era popolatissima, poi, a causa dei numerosi disastri e dell’aria malsana, gli abitanti la abbandonarono. La chiesa cattedrale è intitolata a San Sisto perché ivi è nascosto il corpo del santo, donato dal pontefice Anacleto al conte Rainulfo, quando questi era signore della città, poiché Rainulfo, con Roberto, principe dei capuani, si recò in aiuto dello Stato Pontificio, oppresso dalla guerra. Il corpo di San Sisto dunque, dalla basilica romana dei Santi Pietro e Paolo fu trasportato nella predetta città di Alife. Nella cattedrale ci sono dieci canonicati con due sole dignità ecclesiastiche, l’archidiaconato e il primiceriato; la prima dignità, da un punto di vista economico, è del tutto carente, mentre la seconda ricava ben poco. I canonicati sono tanto tenui che non arrivano a dieci ducati annui per ciascuno. Vi è parimenti in Alife un convento di San Francesco, in cui stanno due frati. Vi sono inoltre diverse chiese, che piuttosto possono essere definite rovine, i cui redditi non sono rintracciabili, poiché l’archivio episcopale in questa città di Alife non è in uso. È fuori dalle mura di detta città il monastero dei Celestini, dove quattro sacerdoti conducono la vita quotidiana. Sotto la giurisdizione della predetta cattedrale vi sono sette terre, di cui la prima è Piedimonte, dove, per l’amenità dell’aria, abita il vescovo; la residenza episcopale, io Pietro Paolo, attuale vescovo, ho ornato e ampliato.
Nella terra di Piedimonte ci sono tre collegiate: la prima è sotto il titolo di Santa Maria Maggiore; detta chiesa contiene dodici canonici e una dignità di archipresbiterato; ogni anno, tra i detti canonici, al capitolo sono eletti in due che, approvati dal vescovo, esercitano la cura delle anime. La seconda collegiata, a Castello, è sotto il titolo della Santa Croce: non vi è alcuna dignità ecclesiastica, ma soltanto sei canonici che assolvono la cura delle anime; la terza collegiata, nel borgo di Vallata, è intitolata all’Annunziata, in cui ci sono sei canonici che, allo stesso modo di quelli di Santa Croce, eseguono la cura delle anime.
La terra di Prata ha una chiesa patrimoniale, o ricettizia, in cui si trova un archipresbitero con cura delle anime. Vi è in Prata l’abbazia di San Pancrazio, il cui reddito è di venti ducati annui. Inoltre a Prata si trovano due monasteri: il primo di San Francesco dell’Osservanza, il secondo di Sant’Agostino. Il villaggio di Sant’Angelo ha quattro parrocchie ma soltanto un archipresbiterato senza cura di anime e senza alcun reddito certo; le predette parrocchie sono rette da quattro curati, uno per ciascuna. In Sant’Angelo vi è anche il monastero dei Celestini. La terra di Letino, che è abbastanza popolata, ha una chiesa parrocchiale ricettizia con diversi sacerdoti assistenti. Ailano ha un parroco archipresbitero e altri sacerdoti e chierici coadiutori. Pratella è una terra quasi distrutta, che ha soltanto un archipresbiterato con la cura delle anime. In Valle di Prata vi è un archiprebitero, che esercita la cura delle anime. Vi sono in questa diocesi altri casali, in cui i sacerdoti attendono alla cura delle anime. Il casale di Calvisi, di circa quaranta fuochi, ha un curato che, per la tenuità dei redditi di quella chiesa, non risiedeva sul posto. Il predetto curato, con grandissimo danno per le anime, abitava in Piedimonte, distante da Calvisi circa tre miglia. Ad ogni modo, per la salvezza delle anime ho ottenuto l’aumento reddituale della chiesa di Calvisi e ho provveduto all’ammodernamento di quella casa parrocchiale, che il parroco ha iniziato ad abitare. Nel primo anno di episcopato ho visitato l’intera diocesi, provvedendo che ai bambini fosse insegnata la dottrina cristiana. Ho provveduto che fosse scrupolosamente osservato il canone tridentino e che fossero santificati i giorni sacri. Ho disposto inoltre che i matrimoni si celebrassero secondo il rito cattolico e che a tutti fossero insegnati tanti utili precetti per una vita onesta e santa. Ho celebrato un sinodo in Alife, in cui ho promulgato decreti per riformare l’intera diocesi, mantenendo salde le tradizioni cristiane. Questo è lo stato della diocesi alifana, che alle Eminentissime e Reverendissime Signorie Vostre io personalmente presento, qui alle soglie dei beati apostoli Pietro e Paolo.
Roma, 25 gennaio 1641.
Umilissimo Servo
Pietro Paolo Medici, vescovo alifano.
1643
Agli Eminentissimi e Reverendissimi Signori Cardinali del Sacro Concilio Tridentino.
Eminentissimi e Reverendissimi Signori,
La Chiesa alifana si trova in Terra di Lavoro, vicino al fiume Volturno. I vescovi da remotissimo tempo non risiedono in Alife, per l’aria malsana e anche perché la città è quasi distrutta; esiguo è il numero degli abitanti. La struttura della chiesa episcopale è antichissima e minaccia di rovinare. I presbiteri sono dieci, con una sola dignità di archidiaconato. La cura delle anime in Alife pertiene al vescovo, che la affida a uno dei canonici. Il reddito dell’episcopato è di circa mille annui ducati, quello dei singoli canonici invece di quindici ducati annui. Molto vicina ad Alife è la terra di Piedimonte, dove risiedono i vescovi. Piedimonte ha tre collegiate: la prima, Santa Maria Maggiore, ha dieci canonici e un archipresbitero; il reddito annuo della chiesa è di cinquanta ducati per ciascun canonico. La seconda collegiata, in Castello, sotto il titolo di Santa Croce, ha sei canonici con un reddito annuo simile a quello dei canonici di Santa Maria Maggiore. La terza collegiata, nella contrada di Vallata, è sotto il titolo della Santissima Annunziata; detta chiesa ha sei canonicati dal medesimo reddito annuo, cioè cinquanta ducati per ogni canonico. La cura delle anime, nel borgo di Vallata, pertiene al capitolo della medesima collegiata ed è esercitata da due canonici, eletti ogni anno nel giorno di San Silvestro e sottoposti all’approvazione del vescovo.
In terra di Piedimonte si trovano quattro monasteri, tre di uomini: San Tommaso d’Aquino (Domenicani), Carmelitani, e Cappuccini. Vi è un solo monastero di monache, dell’Ordine di San Benedetto Abate, le cui suore vivono sotto la cura e l’obbedienza dell’ordinario diocesano e osservano la clausura, secondo la forma del sacrosanto Concilio Tridentino.
La terra di Prata ha una chiesa patrimoniale, o ricettizia, in cui vi è un archipresbitero per la cura delle anime. Vi è in detta terra di Prata l’abbazia di San Pancrazio, dal reddito annuo di circa venti ducati, di giuspatronato del signore locale, appartenente alla famiglia Rota. Inoltre in detta terra di Prata si trovano due monasteri: di San Francesco dell’Osservanza, e di Sant’Agostino. Il villaggio di Sant’Angelo ha quattro parrocchie e un solo archipresbitero; il reddito di dette parrocchie è debolissimo. In Sant’Angelo c’è pure il monastero dei Celestini, dove abitano due sacerdoti. Letino, terra di questa diocesi, è abbastanza popolata e ha una chiesa ricettizia con un archipresbitero che, con due sacerdoti coadiutori approvati dal vescovo, esercita la cura delle anime. Ailano ha una chiesa patrimoniale, in cui un archipresbitero attua la cura delle anime. Nella diocesi di Alife si trova pure la terra di Valle di Prata, con una chiesa ricettizia, in cui un archipresbitero amministra i sacramenti al popolo dei fedeli. Vi sono infine, in questa diocesi, alcuni casali con un proprio curato: San Gregorio, San Potito e Calvisi. I redditi ecclesiastici di questi casali sono talmente tenui che, quando una chiesa si libera, molto difficilmente c’è chi la voglia e, se offerta, spesso è rifiutata. Queste sono le cose che io, Pietro Paolo Medici, vescovo alifano, in presenza, posso riferire sullo stato della mia Chiesa alle Vostre Signorie Eminentissime e Reverendissime, per le quali invoco felicità.
Roma, 15 dicembre 1643.
Umilissimo Servo
Pietro Paolo Medici, vescovo alifano.
1646
Lo stato della Chiesa Alifana è esposto dal vescovo Pietro Paolo Medici, fiorentino, mentre visita le sacre soglie degli Apostoli.
Nella provincia campana del Regno di Napoli, non lontano dalle rive del fiume Volturno, si trova una pianura circondata ovunque dai monti e dai colli, in cui giace la città alifana che si dice una volta abbia contato millesettecento fuochi, ora invece, a causa delle ingiurie del tempo e devastata dalle incursioni di vecchie guerre, è quasi estinta e ridotta a circa cento fuochi. Donde, la città di Alife, per via delle acque stagnanti e palustri, per le rovine degli edifici, per la povertà degli abitanti, è così insalubre che nessuna persona può abitarvi, senza evidente pericolo di vita. Perciò, da immemorabile tempo, i vescovi risiedono in terra di Piedimonte, distante da Alife appena tre miglia.
La chiesa cattedrale ispira un senso di maestosità, per via della grandezza, sebbene la penuria degli ornamenti la mortifichi straordinariamente. Il vescovo, però, ha restaurato il tetto cadente a causa delle piogge, ha regalato due organi e provveduto convenientemente ai paramenti sacri. Il capitolo della cattedrale consta di dieci canonici, con due dignità: l’archidiaconato e il primiceriato. Il reddito annuo dei canonicati ascende a quasi venticinque ducati per ciascun canonico. La cura delle anime, da lunghissimo tempo, è nelle mani del vescovo, che sceglie un sacerdote idoneo e lo abilita affinché la eserciti. Due sono in Alife i cenobi di uomini: di San Francesco, e dei Celestini. Egualmente due sono le chiese del clero secolare: Santa Caterina, e Santa Maria della Nova, entrambe di giuspatronato della predetta città. In Alife ci sono anche tre confraternite: del Corpo di Cristo; del Santissimo Rosario; di San Sisto, il cui corpo si tramanda sia sepolto sotto l’altare maggiore della cattedrale. La diocesi, nel suo insieme, si divide in otto terre: Piedimonte, Sant’Angelo, Prata, Pratella, Ailano, Letino, Valle e Calvisi. La terra di Piedimonte, dove, per la salubrità dell’aria, risiede il vescovo, ha duemila fuochi. La predetta terra si divide in tre parti: Piedimonte, Vallata e Castello. In questa terra, regnante Sisto IV, le chiese parrocchiali erano diverse; il suddetto papa le ridusse a tre soltanto, erigendole in collegiate e creando canonici i loro curati. La prima collegiata è a Piedimonte, sotto il titolo di Santa Maria Maggiore, con dodici canonici e un archipresbitero. La seconda collegiata è nel borgo di Vallata, sotto il titolo dell’Annunziata, con sei canonici. La terza è a Castello, anch’essa con sei canonici. Tutti i canonici indistintamente, dal 1575, anno in cui divennero curati, esercitarono la cura delle anime fino al 1601. Allora la Sacra Congregazione del Concilio determinò che ogni anno, in ciascun capitolo, si eleggessero due sacerdoti per assolvere la cura delle anime.
Nella terra di Piedimonte ci sono tre cenobi di uomini: di San Domenico, dove prospera uno studio pubblico sia filosofico sia teologico, dei Carmelitani, e dei Cappuccini. A Piedimonte ci sono inoltre due monasteri femminili, entrambi sotto la regola di San Benedetto. La terra di Prata ha una chiesa ricettizia, dove si trova un archipresbitero che assolve la cura delle anime. A Prata si trovano inoltre due monasteri di uomini: di San Francesco dell’Osservanza, e di Sant’Agostino. La terra di Sant’Angelo ha quattro parrocchie e un solo archipresbitero. Vi si trova inoltre il monastero dei Celestini. La terra di Ailano ha un archipresbitero con altri sacerdoti e chierici.
La terra di Pratella è quasi distrutta e ha pochissimi abitanti; detta terra ha una chiesa dove un archipresbitero bada alla cura delle anime. La terra di Letino ha una chiesa patrimoniale con un archipresbitero parroco che attende alla cura delle anime; ivi esiste un clero numeroso che attende al culto divino.
La terra di Valle di Prata ha una chiesa con un archipresbitero, che amministra la cura delle anime. Ci sono altri casali che, per concisione, tralascio. Dico soltanto che a Calvisi non risiede il curato per la povertà di quella chiesa, che non ha un reddito sufficiente per mantenere un sacerdote. Tuttavia, ogniqualvolta è chiamato, va a Calvisi un sacerdote della terra di Piedimonte, per l’amministrazione dei sacramenti.
Ogni anno, personalmente, visito l’intera diocesi, ho cura che i bambini siano edotti nella dottrina cristiana, e che i sacri concili, soprattutto il Tridentino, le bolle, le apostoliche sanzioni e i giorni festivi siano osservati. Dispongo inoltre che i matrimoni siano celebrati secondo il rito cattolico e che siano rispettati tutti i precetti per vivere correttamente e in santità.
Il seminario, secondo i decreti del Concilio Tridentino, non è stato finora costruito in questa diocesi, sia per la povertà dei vescovi sia per la tenuità dei benefici ecclesiastici. L’abate Gabriele di Giovanni Antonio, originario di Castello, uomo di pietà e virtù eccelse, attuale curato della chiesa romana di Santa Maria in Monterone, ha donato ultimamente la casa paterna per farvi erigere il seminario. Don Gabriele regalerà mille ducati per completare la costruzione del seminario in modo da finire al più presto l’opera iniziata, in cui possano trovare riparo anche i chierici diocesani più poveri ma virtuosi e colti. Il vescovo, da parte sua, ha donato settanta ducati per le suppellettili. Finalmente la casa di don Gabriele sta quasi assumendo la forma di un seminario.
La gran parte della testa di San Marcellino martire, donata da papa Urbano VIII all’attuale vescovo Pietro Paolo, fu da questi collocata nella chiesa di Santa Maria Maggiore, dove, con le elemosine di persone caritatevoli, è stato costruito e addobbato un bel sacello in onore del santo.
Questo è lo stato della Chiesa alifana che io, Pietro Paolo Medici, indegno vescovo, per dieci anni ho governato e ora espongo alle Vostre Eminenze. Presto verrò in Roma per visitare le soglie dei Beati Apostoli e baciare i piedi del nostro Santo Padre, papa Innocenzo X.
Per ora imploro che le Vostre Eminenze leggano benevolmente questa relazione e rispondano, con le opportune ammonizioni, per il buon governo della Chiesa, per la salvezza delle anime e per la maggiore gloria di Dio cui vanno lode e onore nei secoli, amen.
Umilissimo Servo
Pietro Paolo Medici, vescovo alifano.
1650
Stato della Chiesa alifana che Pietro Paolo Medici, fiorentino, attuale vescovo, volendo ottemperare alla bolla di papa Sisto V, riferisce alle Vostre Eminenze Reverendissime.
La città alifana è situata in una pianura accanto al fiume Volturno, in Terra di Lavoro. Si tramanda che in passato Alife abbia contato millesettecento fuochi, ora tuttavia, a causa delle molte guerre patite e per via dell’aria malsana, è ridotta a cento fuochi. La cattedrale alifana, benché sia di antichissima struttura, come facilmente si può dedurre dall’originaria vastità e magnificenza, l’attuale vescovo Pietro Paolo, trovandola quasi distrutta e senza paramenti, l’ha restaurata, arricchita di sacre suppellettili, decorata con due organi e con una bella sacrestia. La cattedrale ha dieci canonici con un archidiaconato, che è la prima dignità, e un primiceriato, che è la seconda. Tuttavia la cattedrale non ha alcun reddito certo. I redditi dei canonicati sono a tal punto tenui che tutti insieme non superano la somma di dodici ducati annui. Nella cattedrale ci sono tre confraternite: del Santissimo Corpo di Cristo, del Santissimo Rosario, e di San Sisto papa e martire, il cui corpo si crede sia tumulato sotto l’altare maggiore. In città si trova il convento di San Francesco, dove vivono un sacerdote e un laico, con un reddito annuo di cento ducati circa. Fuori le mura cittadine vi è il monastero dei Celestini, sotto l’invocazione di Santa Maria delle Grazie, in cui vivono quattro sacerdoti, senza alcuna regolare osservanza, con un reddito annuo di quattrocento ducati. In Alife ci sono due benefici ecclesiastici: di Santa Maria la Nova, e di Santa Caterina che, per privilegio della Sede Apostolica, sono amministrati dai sindaci del luogo. La diocesi, oltre la città di Alife, contiene altre sette terre e tre casali. Le terre sono: Piedimonte, Sant’Angelo, Ailano, Prata, Pratella, Valle, e Letino. I casali invece sono: San Potito, San Gregorio, e Calvisi. La terra di Piedimonte, in cui risiedono i vescovi per via dell’amenità dell’aria, annovera duemila fuochi e ha tre chiese collegiate per la cura delle anime, che è esercitata da due canonici eletti da ciascun collegio annualmente nel giorno di San Silvestro. La Collegiata di Santa Maria Maggiore, in Piedimonte, ha dodici canonici, con un reddito annuo di ottanta ducati ciascuno. Detti canonici servono correttissimamente la parrocchia, la cui circoscrizione contiene tre monasteri di uomini e uno di donne. Il primo monastero di uomini, quello di San Domenico, mantiene trenta religiosi che praticano una regolare osservanza. Il secondo è dei Carmelitani, in cui vivono quattro sacerdoti, con un reddito annuo complessivo di quattrocento ducati. Il terzo è dei Cappuccini, in cui vivono diciotto religiosi. Nel monastero delle monache, sotto la regola di San Benedetto, vivono adeguatamente cinquanta vergini. Nella terra di Piedimonte si trova il palazzo episcopale che Pietro Paolo Medici, presente vescovo, sta ora ricostruendo con denari propri quasi dalle fondamenta. La Collegiata della Santissima Annunziata, in Vallata, ha sei canonici con un reddito annuo di settanta ducati ciascuno. Nella circoscrizione di questa parrocchia si trova il monastero di San Benedetto, recentemente costruito, in cui vivono dodici monache. La Collegiata di Santa Croce, in Castello, ha sei canonici con un reddito annuo di settanta ducati per ciascuno. Nel territorio di questa parrocchia c’è il seminario diocesano, eretto dall’attuale vescovo Pietro Paolo Medici. Per la costruzione del seminario, il reverendo Gabriele di Giovanni Antonio, attuale rettore della chiesa romana di Santa Maria in Monterone, ha donato la propria casa paterna. Veramente, per il sostentamento dei seminaristi, don Gabriele ha elargito pure mille ducati da trasformare in redditi annui. Poiché i frutti dei redditi, al tempo presente, non superano complessivamente la somma di cento ducati annui, da soli non bastano per gli alimenti necessari agli alunni e ai maestri. La terra di Sant’Angelo ha quattro chiese parrocchiali con un solo archipresbitero. In detta terra vi è il monastero dei Celestini, dal reddito annuo di cento ducati, in cui abita un solo sacerdote. La terra di Ailano ha una chiesa ricettizia, con nove sacerdoti e un archipresbitero. I redditi ecclesiastici sono a tal punto tenui che la loro somma non supera i quindici ducati annui. La terra di Pratella è quasi distrutta e senza abitanti. Ciononostante ha una chiesa abbastanza bella e decorosamente ornata, in cui si trovano un archipresbitero e un altro sacerdote. La terra di Prata ha una chiesa ricettizia con nove sacerdoti e un archipresbitero. A Prata ci sono due monasteri di uomini, il primo è di San Francesco, il secondo di Sant’Agostino. Nel primo vivono adeguatamente nove religiosi. Nel secondo, che ha un reddito annuo di cento ducati, abita soltanto un religioso insieme a un laico.
La terra di Valle di Prata, sita in un luogo deserto, ha una chiesa ricettizia con tre sacerdoti e un archipresbitero, i cui redditi sono ugualmente tenuissimi. La terra di Letino ha un clero abbastanza numeroso, composto di sacerdoti e chierici. Per la cura delle anime c’è un archipresbitero che amministra la chiesa di quell’Università, intitolata a Santa Maria del Castello. In terra di Letino, i sacerdoti della chiesa matrice hanno un reddito annuo di quindici ducati ciascuno. I casali di cui ho parlato prima hanno un loro parroco e, in ciascuna chiesa diocesana, i curati insegnano la dottrina cristiana secondo le disposizioni del sacrosanto Concilio Tridentino. Queste sono le cose sullo stato della chiesa alifana che l’attuale vescovo Pietro Paolo Medici, al presente riferisce alle Signorie Vostre Eminentissime, da cui aspetta disposizioni da eseguire in modo scrupolosissimo.
Pietro Paolo Medici, vescovo alifano.
1654
Pietro Paolo Medici, vescovo alifano, visita le sacre soglie degli Apostoli e rivela lo stato della sua Chiesa.
La diocesi alifana è sita nel Regno di Napoli, in provincia di Terra di Lavoro, in Campania, vicino alla provincia del contado del Molise. Ha per contigue anche la diocesi telesina e la caiatina. Alife è distante da Roma centodieci miglia, da Napoli invece trentasei. La città più illustre della diocesi è Alife. La diocesi si divide in otto paesi, cioè Piedimonte, Prata, Sant’Angelo, Letino, Ailano, Pratella, Valle, e Calvisi. Ogni anno visitiamo l’intera diocesi e, quando è il caso, ci adoperiamo con tutte le forze per la repressione delle gravi mancanze e negligenze che si oppongono alla salvezza delle anime. Agiamo in modo che: 1) ciascun fedele possa essere nutrito con il pane del verbo di Dio, e possa vivere santamente; 2) ai bambini sia insegnata la dottrina cristiana; 3) siano osservati i giorni festivi; 4) siano celebrati i matrimoni secondo il rito di Santa Romana Chiesa; 5) siano eseguite tutte quelle cose che spettano al nostro ufficio.
Alife. La città alifana, di conformazione quadrata, è sita nelle vicinanze del fiume Volturno. Alife è lontana sei miglia dal celebre monte Matese e fino a questo momento è cinta dalle mura ricostruite da Quinto Fabio Massimo. Veramente, una volta abbandonata in seguito a delle calamità che l’avevano afflitta, di città conserva soltanto il nome, come dimostra a sufficienza il numero di cinquantadue fuochi dell’ultima numerazione (censimento) del Regno di Napoli. Alife ha un’aria tanto insalubre che d’estate gli abitanti vanno incontro alla morte o sono assediati incessantemente dai morbi, per cui la città è priva della residenza dei vescovi da un incalcolabile numero di anni. Noi, come i nostri predecessori, abitiamo in Piedimonte, il paese più vicino. Alife ha una chiesa cattedrale sotto il titolo della Beata Vergine dell’Assunzione e di San Sisto, protettore cittadino, il cui corpo, da quanto si tramanda, ivi è sepolto. La struttura della chiesa è antica ma deturpata dal tempo che tutto consuma. Le sacre suppellettili, per quanto è possibile e grazie a Dio, sono state da noi aumentate. Il capitolo della cattedrale è composto da dieci canonici, due dei quali sono insigniti di dignità: l’uno ha l’archidiaconato, l’altro il primiceriato; i redditi del capitolo non superano i venticinque ducati annui e si devono ripartire tra i singoli canonici. Prima in Alife la cura delle anime era affidata temporaneamente a un sacerdote idoneo, oggi invece a un prete che funge da vicario perpetuo, secondo il decreto della Congregazione del Concilio e su disposizione del sacro Concilio Tridentino, previo esame e vagliati tutti i requisiti. In Alife ci sono due monasteri di uomini: il primo, in cui vivevano i Frati Minori di San Francesco, è stato dichiarato soppresso dalla sacra Congregazione del Concilio, poiché, al presente, non si possono più sostentare i sei religiosi che vi si trovano. I redditi di questo monastero, con il consenso del capitolo della cattedrale, sono stati applicati al seminario diocesano, da noi ultimamente eretto. Il secondo monastero, in cui momentaneamente abitano i Frati Celestini, è stato dichiarato ugualmente soppresso, e similmente, in base ai requisiti contenuti nella medesima bolla, i suoi redditi sono stati destinati al predetto seminario. Tuttavia non c’è stata alcuna innovazione. In conseguenza delle ultime lettere provenienti dalla sacra Congregazione del Concilio, il cenobio si trova ancora al suo posto. In quelle lettere si ordinava di soprassedere all’abolizione del convento. Veramente, in coscienza, testimonio che il monastero, situato nei boschi, lontano dalla predetta città di Alife e dai paesi finitimi, è ora un asilo di ladri e un immondo lupanare di religiosi. Imploro, perciò, che la mia sentenza sia eseguita, in modo che il monastero sia completamente soppresso. In Alife si contano due chiese di sacerdoti secolari: l’una sotto il nome di Santa Caterina, l’altra intitolata a Santa Maria della Nova, entrambe di giuspatronato dell’Università cittadina. Per una mia sentenza, fatta salva una migliore, i redditi delle citate due chiese devono essere applicati al predetto seminario, costruito di recente e privo di fondi. Infine, in Alife, vi sono tre confraternite, cioè: del Santissimo Corpo di Cristo, del Santissimo Rosario, e di San Sisto.
Piedimonte, Castello e Vallata. Piedimonte, Castello e Vallata sono borghi collegati tra loro e costituenti un’unica terra; sono soggetti ai giudici e ai rettori della medesima Università; hanno gli stessi statuti e si servono delle medesime consuetudini; insieme comprendono duemila fuochi. La collegiata di Piedimonte ha dodici canonici; quella di Castello invece ne conta sei, al pari della Collegiata di Vallata. Dal 1601 fino ad oggi la cura delle anime è stata affidata, e si assegna annualmente, nelle predette collegiate, a due canonici eletti da ciascun capitolo, presentati al vescovo e, previo esame, nominati curati. Nella collegiata di Piedimonte i canonici servono con premura, con ogni ardore, assiduità e devozione. La chiesa collegiata è intitolata a Santa Maria Maggiore. Ivi, negli anni recentemente passati, abbiamo collocato, in un sacello costruito con tutti gli onori, la maggior parte della testa di San Marcellino martire, a noi donata da papa Urbano VIII. La festa del santo è celebrata con la massima solennità da tutti i piedimontesi, con grandissimo concorso di genti vicine e lontane. Piedimonte ha inoltre tre monasteri di uomini: di San Domenico, dove esiste uno studio sia filosofico sia teologico, dei Carmelitani, e dei Cappuccini. Piedimonte ha inoltre un monastero di monache sotto il titolo e la regola di San Benedetto. Castello ha una propria collegiata, sotto il titolo della Santa Croce, dove i canonici officiano diligentemente il culto divino. Nel borgo di Castello è stato costruito il seminario diocesano grazie a un uomo devoto, Gabriele Di Giovanni Antonio, al presente curato presso la chiesa romana di Santa Maria in Monterone. Per la costruzione del seminario il predetto curato ha donato la propria casa paterna e mille ducati, con il patto, tuttavia, che si debbano sostentare due alunni scelti da lui medesimo, o dai suoi eredi, in perpetuo, cosa che di fatto oggi avviene. Ha posto pure la condizione che il seminario non possa essere trasferito altrove. Il seminario non è stato eretto in Alife per l’insalubrità dell’aria. Al presente nel seminario si mantengono otto alunni, da istruire nelle buone maniere e nelle discipline della filosofia e delle umane lettere. Il borgo di Vallata ha una propria chiesa, sotto l’invocazione della Santissima Annunziata. Quei canonici adempiono molto diligentemente, e con edificazione del popolo, gli uffici divini. Sempre nella contrada di Vallata c’è un monastero di monache, costruito negli anni appena trascorsi, sotto la regola di San Benedetto.
Prata. Prata ha una chiesa parrocchiale ricettizia, in cui un archipresbitero esercita la cura delle anime. Inoltre Prata ha due monasteri di uomini: di San Francesco dell’Osservanza, e di Sant’Agostino. Il terzo convento è stato dichiarato soppresso dalla sacra Congregazione del Concilio, e i suoi redditi, con il consenso del capitolo, sono stati assegnati alla chiesa parrocchiale, previo consenso della sacra Congregazione del Concilio.
S. Angelo. Sant’Angelo ha quattro chiese parrocchiali, e il solo monastero dei Celestini, in cui ha sempre abitato un religioso.
Letino. Letino ha una chiesa ricettizia, sotto l’invocazione di San Giovanni Battista, e un curato che assolve la cura delle anime. La terra di Letino ha duecentottanta fuochi. Il clero, che raggiunge il numero di quaranta persone, serve la chiesa in modo scrupoloso, con la massima soddisfazione dei fedeli e con l’ammirazione dell’intera diocesi. Tutto il clero di Letino è versato non mediocremente nelle umane lettere. Letino ha un’altra chiesa, sotto il titolo di Santa Maria di Castello, in cui i sacerdoti servono l’ufficio divino settimanalmente. La predetta chiesa è sotto il giuspatronato dell’Università di Letino e i suoi non esigui redditi sono amministrati, secondo il rito e in modo corretto, da due economi eletti dall’Università e da noi confermati.
Ailano. Ailano ha una chiesa parrocchiale e ricettizia, con un archipresbitero e altri sacerdoti e chierici che servono quella parrocchia meticolosamente. Pratella. Pratella oggi ha pochissimi abitanti, e si è ridotta ad appena tredici fuochi. Ciononostante il solo archipresbitero continua a servire quella chiesa. Valle. Valle ha una chiesa ricettizia con tre sacerdoti e un archipresbitero. Calvisi. Calvisi, a causa della povertà, non aveva prima d’ora un proprio parroco. Adesso invece, in quella parrocchia, abbiamo creato un curato perpetuo, ivi residente, per la cura delle anime. Ho riferito queste cose fedelmente.
Pietro Paolo Medici, vescovo alifano.
Monsignor Sebastiano Dossena
Monsignor Sebastiano Dossena nacque a Milano, dove fu battezzato il 5 marzo 1605. I genitori erano Ferdinando, discendente da un’aristocratica e illustre famiglia di Pavia, e Caterina De Nobili. Il 10 ottobre 1619, a quattordici anni, entrò nell’Ordine dei Chierici Regolari di San Paolo (Barnabiti). Il 18 aprile 1621 si consacrò alla vita religiosa nella chiesa di Santa Maria del Carrobiolo, a Monza, emettendo i voti di povertà, castità e obbedienza. Il 17 dicembre 1622 ricevette la tonsura ecclesiastica dal cardinale Federico Borromeo e il 10 marzo 1629 fu ordinato sacerdote a Roma, dove studiò teologia e oratoria sacra presso la chiesa di San Carlo ai Catinari, nel quartiere di Sant’Eustachio. Dal 1638 al 1641 fu preposto della comunità barnabita di Pavia. Nel 1642 si trasferì al collegio milanese di Sant’Alessandro, dove, per la fervida operosità, acquisì la fama di vir strenuissimus. Eletto padre provinciale di Roma nel 1645, ebbe modo di farsi stimare per le sue notevoli capacità, tanto che, poco dopo, fu inviato al collegio di San Benedetto, a Praga, dove entrò nelle buone grazie del cardinale Ernst von Harrach, che lo volle come teologo personale e assessore nel concistoro diocesano. Nominato vescovo di Alife il 21 aprile 1659, esercitò l’azione pastorale fino al 28 dicembre 1662, quando morì a Piedimonte, dove fu sepolto nella chiesa di Santa Maria Maggiore.
Relazione del 1659
L’unica relazione di monsignor Dossena è di fondamentale importanza per conoscere i dati demografici dell’intera diocesi all’indomani della devastante e terribile epidemia di peste del 1656. Il morbo falcidiò la popolazione piedimontese, riducendola, da più di dodicimila, a tremilatrecento abitanti. Un’analoga decimazione subì la città di Napoli, come apprendiamo dalla relazione ad limina del 1659, scritta dall’arcivescovo di Napoli, il cardinale Ascanio Filomarino, in cui si dice che: ex quingentis fere millibus et forsan pluribus qui tunc temporis [1656] extabant cives, centum vix mille superstites incolumesque salutis auctore Domino permansere. A Napoli, di mezzo milione di persone ne rimasero in vita appena centomila. La diffusione della peste del 1656 è una tra le pagine più luttuose del Seicento, un discrimine temporale da cui riprendere la narrazione per un prossimo volume.
1659
Sebastiano Dossena, vescovo di Alife per grazia di Dio e della Sede Apostolica, presenta la relazione sul primo triennio del proprio episcopato.
Eminentissimi e Reverendissimi Signori,
Prima che mi allontanassi da Roma, a seguito di un benevolo permesso del santissimo nostro papa Alessandro VII, ho visitato di persona le sacre soglie degli Apostoli per il ventitreesimo, ventiquattresimo e venticinquesimo triennio. In quell’occasione assunsi formale impegno che, una volta giunto alla mia Chiesa, entro sei mesi, avrei inviato una relazione sullo stato della diocesi alle Eminenze Vostre, cosa che ora cercherò di fare, in modo diligente e conciso. La città di Alife, che vive sotto il dominio temporale dell’eccellentissimo duca di Laurenzana, è antichissima, e quanto illustre sia stata in passato, lo testimoniano le stesse rovine. La piazza e le strade sono malmesse, gli edifici cadenti, la grande struttura della rocca quasi rasa al suolo, e tutte le cose appaiono come poste in un luogo di terrore e di sconfinata solitudine. Gli abitanti sono a tal punto pochi che si contano appena cento piccole case. La città di Alife si trova in Terra di Lavoro, nella provincia ecclesiastica beneventana, della cui chiesa metropolitana il vescovo alifano è suffraganeo. Una volta i cittadini alifani prosperavano ed erano lieti per la presenza del vescovo. Ora la città, ridotta in miseria anche a causa dell’aria malsana, da immemorabile tempo è priva della presenza del vescovo, che abita in Piedimonte, a tre miglia di distanza. La chiesa cattedrale è intitolata alla Beatissima Vergine dell’Assunzione.
La città riconosce come principale patrono San Sisto papa e martire, il cui corpo fu trasferito da Roma ad Alife nel 1131, offerto dal pontefice Anacleto al conte, figlio di Roberto principe dei capuani, per l’aiuto prestato al papa, in Roma, contro i nemici della Chiesa, e sepolto da Roberto, vescovo di Alife, nella chiesa costruita in onore del santo, dove al presente è venerato. Il trasferimento del corpo di San Sisto appare nelle antiche e lodevoli memorie scritte dall’abate telesino Alessandro. L’avvenimento è riportato anche in un libretto sacro, che ora si trova presso di me, emendato dal vescovo alifano nel 1552. La chiesa è di congrua forma e grandezza, ma tanto vecchia da aver bisogno di un grandissimo restauro. Per quel che posso, ho cominciato a predisporre dei mezzi necessari affinché non crolli completamente. Nella chiesa ci sono due dignità: l’archidiaconato e il primiceriato. I canonici sono dieci, e nel numero sono comprese anche le due suddette dignità. Vi sono inoltre altri quattro chierici, che prestano servizio nella cattedrale. La cura delle anime dell’intera città è stata affidata dall’autorità apostolica, in vicaria perpetua, a uno dei canonici. Vi sono altre sette chiese quasi tutte semidistrutte, e due monasteri di regolari: il primo, dell’Ordine di San Francesco, ormai soppresso, i cui tenuissimi redditi sono stati applicati al seminario diocesano, come emerge dalle lettere apostoliche del 25 agosto 1653; il secondo, dell’Ordine di San Pietro Celestino, fuori le mura, sotto il titolo della Beatissima Maria Vergine della Grazia. Alife ha due confraternite, amministrate da procuratori laici eletti dai confratelli, che ogni anno rendono ragione dei loro redditi al vescovo. Ci sono: un solo ospedale, un beneficio per libera collazione, tre giuspatronati. Esiste una commenda di San Giovanni dei Cavalieri di Malta. In Alife abitano 343 anime, 200 delle quali ricevono la comunione. L’intera diocesi, che si protende per quindici miglia in longitudine e dieci in latitudine, comprende, nel proprio ambito, dodici tra villaggi, terre e castelli, cioè: Piedimonte e Vallata, quartieri di Piedimonte, Castello, della terra di Piedimonte, San Gregorio, Letino, Sant’Angelo, Raviscanina, Ailano, Valle di Prata, Pratella, San Potito, e Calvisi. Ogni paese ha un proprio parroco archipresbitero tranne Prata, San Potito, e Calvisi, in cui, per la tenuità dei redditi, c’è il solo economo.
Piedimonte e Vallata, quartieri di Piedimonte.
La terra di Piedimonte è insigne non solo nell’intera diocesi ma anche in tutto il Regno di Napoli. Prima del contagio (della peste) si contavano dodicimila anime e oltre, oggi 3300. È lieta della presenza del proprio pastore, residente nel luogo da moltissimo tempo. Piedimonte ha una chiesa collegiata dedicata a Santa Maria Maggiore, dove prestano servizio dodici canonici, nel cui numero sono compresi una dignità archipresbiteriale e due sacerdoti che aiutano i parroci, poiché presso gli stessi canonici vige ancora la consuetudine di eleggere ogni anno, per il servizio parrocchiale, due di loro, che sono presentati al vescovo per la conferma. In questa chiesa si trovano le reliquie di diversi santi, e si festeggia il solo patrono San Marcellino martire, la cui testa è venerata con pia e straordinaria devozione. Oltre ai predetti canonici vi sono dodici presbiteri e ventitré chierici. Per di più, esistono altre diciassette chiese, di cui otto sono quasi totalmente distrutte. I monasteri di regolari sono tre: dei Carmelitani, dei Domenicani, e dei Cappuccini. Due sono i conventi delle monache dell’Ordine di San Benedetto, sei le confraternite. Ci sono: un solo ospedale, due benefici per libera collazione, e sette giuspatronati. L’eccellentissimo duca di Laurenzana ha la propria residenza in questo luogo. In Vallata, quartiere di Piedimonte, si trova un’altra chiesa collegiata, sotto il titolo della Santissima Annunziata, in cui vi sono sei canonici. Oltre i suddetti, si contano altri cinque sacerdoti e ventiquattro chierici, che danno una mano nell’organizzazione della chiesa, rispettando scrupolosamente il rito sacro. La cura delle anime è affidata ai canonici, allo stesso modo di Santa Maria Maggiore. Vi sono un ospedale e una celebre Confraternita di San Filippo Neri, amministrata da ecclesiastici secolari, che ogni anno rendono ragione, del dare e dell’avere, al vescovo.
Castello, della terra di Piedimonte.
Castello ha una chiesa collegiata sotto il titolo della Santa Croce, dove prestano servizio sei canonici che, ogni giorno, recitano devotamente le preghiere delle ore canoniche. Oltre i canonici ci sono altri cinque sacerdoti e sette chierici. In questo luogo è stato costruito da molto tempo il seminario diocesano, chiuso per quattro anni a causa del contagio, sebbene adesso io vi abbia fatto ammettere dodici alunni, che momentaneamente, data la povertà del luogo, si mantengono a proprie spese. Il reddito annuo del predetto seminario è talmente tenue che è sufficiente soltanto per il salario del maestro. Ci sono altre sei chiese, di cui alcune hanno bisogno di un grande restauro. Esistono inoltre cinque confraternite, due benefici per libera collazione, tre giuspatronati. Ci sono 450 anime, 234 delle quali fanno la comunione.
San Gregorio.
Il villaggio di San Gregorio ha un proprio parroco archipresbitero nella chiesa di Santa Maria della Grazia. La parrocchia fu trasferita nella sede attuale dall’originaria cappella di San Gregorio, ormai completamente distrutta, con l’onere di edificare a spese dell’Università una nuova chiesa. In verità già si trovano a disposizione diverse elemosine, con la speranza di acquisire altri mezzi necessari per la costruzione di detta chiesa. Esistono altri tre chierici che prestano servizio nella parrocchia. Si contano una confraternita, e solo un beneficio per libera collazione. Ci sono 296 anime, 190 delle quali ricevono la comunione.
Letino
Letino è un villaggio celebre. Ha una chiesa parrocchiale intitolata a San Giovanni Battista, in cui devotamente ventiquattro sacerdoti prestano servizio insieme a un archipresbitero, che assolve le funzioni parrocchiali. Oltre i sacerdoti ci sono cinque chierici. Esiste anche un’altra chiesa molto famosa, sotto il titolo della Santissima Vergine del Castello, adornata con tante pietre tagliate con singolare perizia e arricchite con marmo pregiato. Ci sono due confraternite, sei benefici per libera collazione, dei quali quello di San Pietro è unito alla mensa episcopale. Esistono un giuspatronato e un ospedale. Ci sono 805 anime, 655 delle quali si confortano con la comunione.
Sant’Angelo.
La terra di Sant’Angelo vive sotto il dominio dell’illustrissimo don Francesco Grimaldi, marchese della Pietra. La chiesa parrocchiale, sotto la cura di un archipresbitero, è dedicata a Santa Maria della Valle. In questa chiesa prestano servizio, alternativamente, dodici sacerdoti e quattordici chierici. Vi sono altre due chiese parrocchiali che, per la tenuità dei redditi, dovrebbero essere unite alla prima. Inoltre esistono altre tre chiese che, insieme ai loro redditi, furono unite alla sopraddetta chiesa parrocchiale. Si possono vedere altre quattro chiese, quasi rase al suolo. Ci sono cinque confraternite, tre benefici per libera collazione e un giuspatronato. Vi sono 410 anime, 250 delle quali ricevono la comunione.
Raviscanina.
La terra di Raviscanina appartiene al suddetto marchese della Pietra. Ha una chiesa parrocchiale sotto il titolo della Santa Croce. In questa chiesa sette sacerdoti e undici chierici si occupano delle cose sacre. Esistono anche altre tre chiese, che hanno bisogno di un ingentissimo restauro. Ci sono due confraternite e due benefici per libera collazione. Vi sono 243 anime, 126 delle quali ricevono la comunione.
Ailano.
La terra di Ailano riconosce per suo utile signore l’illustrissimo barone don Ferdinando de Penna. Ha una chiesa parrocchiale sotto il titolo di San Giovanni Evangelista, in cui i sacramenti sono amministrati da un archipresbitero, che assolve la cura delle anime. Vi sono anche sei sacerdoti e cinque chierici, che prestano servizio nella suddetta parrocchia e in altre tre chiese. Esistono due benefici per libera collazione, quattro giuspatronati e un ospedale. Ci sono 406 anime, 306 delle quali ricevono la comunione.
Valle.
La terra di Valle ha una chiesa parrocchiale dedicata alla Santissima Annunziata, in cui i sacramenti sono amministrati da un parroco archipresbitero. Ci sono inoltre due sacerdoti e due chierici. Esistono altre tre chiese semidistrutte, un ospedale, due confraternite e tre benefici per libera collazione. Vi sono 672 anime, 285 delle quali ricevono la comunione.
Prata.
La terra di Prata riconosce per sua utile signora l’eccellentissima Principessa di Colobraro (Faustina Carafa di Colubrano). La chiesa parrocchiale è sotto il titolo di Santa Maria della Grazia. Gli uffici parrocchiali sono esercitati dall’economo archipresbitero del luogo, il cui beneficio, per mancanza di redditi, è vacante da molti anni. I sacerdoti sono otto, i chierici tredici. Esistono ulteriori quindici chiese, alcune cadenti, altre rase al suolo. Vi sono tre benefici per libera collazione, cinque giuspatronati, un ospedale quasi completamente devastato, un monastero di San Francesco dell’Osservanza, e un altro di Sant’Agostino, ormai soppresso, e aggregato in parte al clero di Prata, e in parte alle parrocchie di Raviscanina e di Valle. Ci sono 587 anime, 489 delle quali ricevono la comunione.
Pratella.
La terra di Pratella è un piccolo villaggio. Ha una chiesa parrocchiale dedicata a San Nicola e amministrata da un archipresbitero, insieme con un altro sacerdote a sostegno della parrocchia. Esistono due confraternite e tre benefici, due dei quali sono di giuspatronato. Ci sono 89 anime, 50 delle quali ricevono la comunione.
San Potito.
La terra di San Potito vive sotto il dominio temporale dell’eccellentissimo Duca di Laurenzana. Vi si trova una chiesa parrocchiale sotto l’invocazione di San Potito, che è amministrata da un economo a causa della povertà del luogo.
Ci sono 374 anime, 276 delle quali ricevono la comunione. Esiste un’altra chiesa sotto il titolo dell’Ascensione del Signore. Oltre il parroco, vi sono un sacerdote e un chierico.
Calvisi.
Il piccolo villaggio di Calvisi appartiene al suddetto duca di Laurenzana. Vi è una chiesa sotto il titolo di Santa Maria del Carmelo che, per l’esiguità dei redditi, è amministrata da un economo. Esiste una sola confraternita. Ci sono 113 anime, 79 delle quali ricevono la comunione.
Ho visitato personalmente tutti questi paesi, e ho volto l’attenzione verso quelli che sembravano desiderare il mio ufficio pastorale. Seguendo le orme dei miei predecessori, ho promulgato tutti gli editti che sembravano utili a rinvigorire la disciplina del clero e del popolo e a procurare la salvezza delle anime, curando che fossero eseguiti con la massima coscienziosità. Ho potuto rimuovere le cose sconvenienti, rimproverare la licenziosità dei chierici, correggere, punire e contenere gli inobbedienti, con la carità che si addice a un padre e pastore, sempre ascoltando il parere altrui. Per iscritto e con decreti ho ottemperato a tutte le disposizioni apostoliche. In questa visita pastorale ho unto oltre mille anime con il sacro crisma. Queste sono, Eccellentissimi Signori, le cose che ho giudicato degne di riferire. Tralascio le cose più lievi. Mi si consenta di aggiungere che in tutte le funzioni episcopali, per quel che permette la debolezza umana, ho sempre fatto il mio dovere. Dio, per la gloria della Chiesa militante, protegga le Eminenze Vostre per molti anni ancora. Delle Eminenze Vostre mi confermo sempre umilissimo e obbedientissimo servo
Sebastiano Dossena, vescovo alifano
Piedimonte d’Alife, 9 dicembre 1659.
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Hinc felix illa Campania est, ab hoc sinu incipiunt vitiferi colles et temulentia nobilis suco per omnis terras incluto, atque (ut vetere dixere) summum Liberi Patris cum Cerere certamen. Hinc Setini et Caecubi protenduntur agri. His iunguntur Falerni, Caleni. Dein consurgunt Massici, Gaurani, Surrentinique montes. Ibi Leburini campi sternuntur et in delicias alicae politur messis. Haec litora fontibus calidis rigantur, praeterque cetera in toto mari conchylio et pisce nobili adnotantur. Nusquam generosior oleae liquor est, hoc quoque certamen humanae voluptatis. Tenuere Osci, Graeci, Umbri, Tusci, Campani.
[Plinius Sen., "Nat. Hist." III, 60]
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