Per una storia dell’agricoltura a Caiazzo in età moderna

di Armando Pepe

Fonti archivistiche e abbreviazioni

  • Archivio di Stato di Firenze (d’ora in poi ASFi), Fondo Guicciardini Corsi Salviati, filza 149, inserto 1 “Relazione di Caiazzo fatta da Giovanni Francesco Feronia, che già stette Vicario in detta città”.
  • ASFi, Fondo Guicciardini Corsi Salviati, filza 160, inserto 26 “Osservazioni sopra il feudo di Caiazzo. Dimostrazioni di dieci anni, estratte dai libri veglianti (in uso), sui seguenti beni: Fattoria di Caiazzo, Fattoria di Raiano, Oliveti vecchi della Casa, Fieno di Padula, Frutto delle Selve per l’industria della Casa, Frutto delle Selve vendute, Industria delle giumente, Industria dei neri, Industria delle vaccine, Esazione dei debitori attrassati, dimostrazioni dei proventi”.
  • ASFi, Fondo Guicciardini Corsi Salviati, filza 160, inserto 25 “Risoluzioni prese dal signor marchese Giovanni Corsi in occasione della sua gita in Regno ai suoi feudi di Caiazzo, Raiano, Dugenta, Melizzano e Castella il dì 20 ottobre 1744, dove si trattenne fino al dì 31 marzo 1745. Piano sulle diboscazioni e piantagioni di ulivi”.
  • ASFi, Fondo Guicciardini Corsi Salviati, filza 160, inserto 5 “Metodo che si usa in Caiazzo per la raccolta delle olive”.

Per una storia dell’agricoltura a Caiazzo in età moderna

Nei secoli il feudo di Caiazzo, rinomato e laborioso centro rurale in Terra di Lavoro, appartenne ai Sanseverino, ai Rossi di San Secondo, ai de Capua e finalmente nel 1615 fu acquistato da Bardo Corsi. Il motivo che spinse il facoltoso mercante fiorentino a comprarlo era la forte convinzione che soltanto l’agricoltura rappresentasse una fonte di vera ricchezza. Pertanto l’acquisto palesava dei fermi propositi imprenditoriali ed evidenziava la sistematicità e l’oculatezza osservate dalla famiglia toscana nell’amministrazione dei propri beni.
Si può cogliere il senso del pragmatismo dei Corsi leggendo, presso l’Archivio di Stato di Firenze, più di duecento filze con le sterminate carte e i conti delle loro aziende. Nel fondo non mancano elementi per comporre un bozzetto antropologico in cui tipizzare i riti agrari, magari in un quadro che possa illuminare le basi dell’alimentazione, così come il folclore e la società, seguendo la maniera di Piero Camporesi. Fra quei documenti si rinvengono non solo preziose testimonianze su come nel XVIII secolo si approfondisse lo studio delle pratiche agricole allo scopo di aumentare la produttività, ma anche i libri contabili, gli atti notarili e le mappe topografiche. Per interpretare, da un punto di vista economico, la società meridionale nell’età moderna in Terra di Lavoro, un valido contributo, sia pure datato, in cui è analizzato l’andamento delle rendite agrarie, rimane un volume di Aurelio Lepre , mentre cospicue informazioni sulla vita commerciale e finanziaria napoletana durante il XVII secolo sono state portate alla luce da Giuseppe Coniglio in un memorabile e pionieristico saggio, da cui emerge che molte famiglie nobili, provenienti da diverse parti d’Italia, erano interessate ad acquisire feudi nel Mezzogiorno. Oltre e accanto ai genovesi e ai lombardi c’erano pure i fiorentini, come i Corsi.
Nel fluire del tempo sono state pubblicate diverse e pregevoli opere, che mettono in risalto il lato imprenditoriale della nobiltà napoletana indigena o acquisita . La famiglia Corsi importò un’avanzata concezione d’intendere la produzione agraria, intervenendo con investimenti capitalistici nell’economia terriera. A Caiazzo, secondo la tipologia toscana, s’impose il modello della “fattoria” che, per usare le parole di Emilio Sereni , era "il centro di una complessa organizzazione della grande azienda signorile appoderata, generalmente annessa, appunto, a una grande villa padronale". Però nella fattispecie locale la villa padronale era sostituita dal castello che sovrasta il borgo.
Tuttavia le differenze tra i paesi toscani e Caiazzo consistevano nella peculiarità delle colture e nel tratto distintivo e caratteristico dell’esperienza contadina. Nel XVIII secolo, quando in Italia presero piede le dottrine fisiocratiche, anche a Caiazzo e dintorni si sperimentarono pratiche agricole d’avanguardia, considerando che all’agricoltura può essere applicato il principio del francese Antoine-Laurent de Lavoisier, secondo cui in una reazione chimica nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.
Raffaele Ajello rileva che “alla fine del 1732 Celestino Galiani e Bartolomeo Intieri istituirono a Napoli un’Accademia delle Scienze ad imitazione della Royal Society (di cui il primo divenne socio nel 1735) e dell’Académie des Sciences con un programma molto eloquente: promuovere la conoscenza della natura fisica, geografica, economica del Mezzogiorno, ponendo da parte ogni pretesa ed ipoteca non solo teologica, ma metafisica e filosofica”. Il lavoro campestre non prescinde da una profonda trasformazione del paesaggio e la messa a stabile dimora degli ulivi, dei gelsi e delle vigne, così come la coltivazione del grano, ha dato un’anima al territorio caiatino. Abitando a Firenze nel palazzo avito in via de’ Tornabuoni o a Sesto Fiorentino nella fastosa villa di famiglia , i Corsi delegavano gli affari amministrativi e le quotidiane incombenze che si presentavano nel feudo a dei fidati agenti e fattori, toscani d’origine nella stragrande maggioranza dei casi. Per questo motivo la corrispondenza tra i Corsi e i loro fiduciari, mantenutasi intatta per secoli, offre lo spunto per un’approfondita disamina dei più disparati fatti economici, sociali e mercantili. Sui tentavi di risveglio della vita commerciale e industriale, Domenico De Marco osserva che intorno alla metà del XVIII secolo “la deficienza di strade e l’esistenza di molte dogane interne e di pedaggi rende lento e difficile il commercio interno del Regno. Notevole è invece l’esportazione dal Regno di prodotti agricoli: olio e grano. L’esportazione dell’olio aumenta nella seconda metà del secolo, e si dirige da Napoli verso Marsiglia, dove si sviluppa l’industria del sapone, e dai porti pugliesi verso Trieste e gli altri porti dell’Adriatico. Questi traffici danno anche un certo impulso alla marina mercantile”.
Quando Bardo Corsi, volendo investire alcuni proventi, acquisì un feudo, non a caso scelse Caiazzo, perché la posizione geografica e, ancor di più, le ondulate colline, gli facevano probabilmente tornare in mente la sua terra. Anteriore al 1615 è una descrizione del contado e della città di Caiazzo, breve e veridica relazione che riporta fedelmente la vita civile ed economica del luogo: “La città di Caiazzo è posta in Terra di Lavoro, 24 miglia discosta da Napoli, 24 da Benevento e 8 da Capua; è posta su di un colle assai fertile, ha quattro belle uscite, ed è di aere molto buono; consta di fuochi (nuclei familiari) 600 circa e ha 2500 abitatori. Il territorio, e il contado, vicino alla città è coltivato: consiste nella maggior parte in vigne, che fanno vini buoni e crudi; in oliveti, che producono oli così buoni e dolci, stimati pari a quelli venafrani, che loda tanto il poeta latino Orazio1. Vi sono frutti così d’estate come d’inverno, non solamente bastanti per la città ma da darne fuori. Il territorio del contado è, per la maggior parte, lavorativo e dà grani in grande quantità; vi sono alcune selve fruttifere di ghiande, e inoltre vigne e oliveti. Questo territorio del contado viene coltivato dagli abitatori di sette ville che stanno per esso disperse; una delle quali verso Capua, che è la maggiore di tutte, si chiama la Piana: consta di 300 abitatori circa, e il suo territorio è per la maggior parte arativo. Un altro villaggio si chiama Li Vascelli e San Silvestro, che è di sette o otto case circa e, per il più, è boscoso il suo territorio, ma vi sono fichi eccellentissimi. Nella contrada di Sant’Angelo e tutti i Santi, dove sono due case abitate solamente, vi sono ghiande e una grande quantità d’arbori vitati e castagne. La villa di San Giovanni e Paolo, che sta in un colle soprastante alla città, consta di case 40 e abitatori 200, ha territorio vignato, olivato e, per parte, boscoso; e queste genti esercitano l’arte del campo per lo più. Verso Bucciano vi è un’altra villa di sette o otto case, dove vi è un gran territorio da lavorare. La Frustella, dove vi sono tre o quattro case, ha un territorio olivato. Li Sparani, altra villa di 20 e più case, ha territorio lavorativo, arbustato (arborato) con viti. Per la maggior parte di tutto il contado passa il fiume Volturno. Nella città non vi è distinzione di nobiltà, ma tutti indifferentemente entrano nel governo e nell’amministrazione pubblica. Vi sono otto dottori di legge fra preti e laici; e due o tre di medicina, cinque o sei notari, e molti altri che vivono del loro senza fare esercizio; il resto si applica nell’arte del campo o in altre mercanzie e nell’allevare maiali per l’esuberanza di ghiande; si applicano molti nel far vasi di terracotta, che vendono per i dintorni. Eppure v’è stato un tempo in cui da questa città sono venuti al mondo cinque alti prelati: l’arcivescovo di Nazareth Fabio Mirto Frangipani, l’arcivescovo di Salerno Mario Bolognini, il vescovo di Caiazzo Ottavio Mirto Frangipani, che fu arcivescovo di Taranto e nunzio in Fiandra, il vescovo di Cariati Tarquinio Prisco e il vescovo di Alessano Orazio Rapari. Non vi sono ricchezze degne di considerazione, poiché non esiste un uomo che superi la disponibilità di diecimila scudi, e vi è gente che vive in povertà. Nel contado sono tutti poveri; nella villa della Piana sono solamente quelli di Casa Marocco che possiedono qualche migliaio di scudi di valsente. Le acque della città non sono buone; vi è solamente una cisterna grande nella piazza, che è cosa magnifica, e alcuni pozzi in poche case private. Fuori della città, un quarto di miglio discosto, vi è il fonte della Fistola, d’acqua assai buona e perpetua, ma non conducibile alla città perché sta al basso; a un tiro di pietra discosto pure dalla città vi è un altro fonte, quello dei Galloni, che ha acqua buona, ma è secco d’estate. Da quanto si è detto appare che grano, olio e vino la città abbia a sufficienza, e se d’estate dovesse mancare un po’ di vino, ha comodità di provvedersene dai luoghi vicini. Carne porcina ne ha in tant’abbondanza che ne manda gran copia in Napoli, e tutti ne tengono salata nelle case loro; le altre carni sono buone e sufficienti; vi è gran copia di animali selvatici, volatili e quadrupedi, né mancano pollami. Rare volte il pesce giunge dal mare, per essere la città discosta dalla marina 24 miglia; ve n’è, e buono, di fiume; in posti sei o sette miglia vicini vi è una grande quantità di trote, di cui molte sono tanto grosse che pesano 12 libbre. Vi è dovizia grande di prugnoli, di asparagi, tartufi e funghi nelle loro stagioni. Ha formaggi solamente paesani, non cattivi, e a sufficienza, né mancano nella loro stagione i latticini. Patisce un po’ d’erbaggi in estate ma ne vengono dai luoghi vicini quotidianamente e a sufficienza. Insomma, per lo vivere si sta bene, la legna si dà a buon mercato, e vi sono fieni assai. Gli abitatori, quando si sentono gravati dai padroni, per la vicinanza di Napoli ricorrono in Vicaria e alla Camera Regia. Non vi sono uomini molto scandalosi o facinorosi per natura. Preti vi sono in gran numero poiché in tutto passano i 120. Vi è la cattedrale con 24 persone, un arcidiacono, due primiceri, sei canonici preti, quattro diaconi, e otto canonici suddiaconi, un accolito e due lettori. Vi è la chiesa della Santissima Annunziata, patronale della città, dove, come in collegiata, servono in 12 tra preti, frati e clerici. Vi sono ancora tre chiese parrocchiali e tre monasteri di Frati Conventuali, che sono in 6, Cappuccini nel numero di 12, e Zoccolanti riformati, che sono 14. Nel contado vi è un sacerdote solamente nella Piana. A Caiazzo vi è una scuola a modo di seminario. Il clero è quieto, serve la Chiesa e non è scandaloso. Il vescovo è il signor Don Horatio Acquaviva d’Aragona, fratello carnale del signor Cardinale Ottavio d’Acquaviva, ultimamente morto, del Duca Geronimo d’Atri , del Conte di Conversano2, e del Beato Rodolfo, gesuita martirizzato in Goa per la fede. Sarà d’età di 60 anni circa, e dicono che suole patire d’apoplessia. Questo prelato è stato sempre in discordia con i baroni, con la città, con il clero e con la Corte Regia. Fu fatto vescovo nel primo anno del pontificato di papa Clemente VIII senza esame, preso dalla Congregazione dei Cistercensi dove, per dispensa di papa Gregorio XIII, passò dall’abito dei Cappuccini, che aveva portato per molti anni. Prima di essere cappuccino fu colonnello dei soldati veneziani. Otto mesi dopo aver preso possesso della sua Chiesa ebbe dalla Sacra Congregazione del Concilio di Roma un Vicario Apostolico e con questi fu governata quella Chiesa sino al secondo anno del pontificato di Nostro Signore il papa, quando la buona memoria del Cardinale d’Acquaviva, per levarlo da Napoli, lo fece restituire nella sua giurisdizione nell’agosto 1607 e d’allora in qua sono stati molte volte laici e preti a querelarsi di lui in Roma, in maniera che gli animi ancora stanno per tutte le parti alterati, e Monsignore sta sempre in contrasto. Modo di privarlo del vescovato io non lo vedo, essendo di una casa così nobile. Ha questo prelato un animo molto grande e spende tanto volentieri; e si riduce alle volte non solamente a non aver da vivere, ma nemmeno d’aver lume la sera in casa. Di suo non ha un mobile al mondo, sta molto scarso di vestiti e i suoi parenti non s’interessano di lui. Nella compra di Caiazzo vanno anche le Castella: Alvignanello è un luogo di 12 o 15 fuochi, aere cattivo, gente poverissima; il territorio è per la maggior parte boscoso e dà grani molto cattivi. Di simile qualità è Campagnano, sebbene abbia cinque o sei case di più. Squille ha 20 case, un territorio assai grande, boscoso e arativo, ma più coltivato degli altri, e con grani di miglior qualità per essere più vicino a Caiazzo. Raiano (Ruviano), che è nella diocesi di Caiazzo, è un villaggio di 40 fuochi, territorio boscoso e arativo, e d’aere poco buono. Vicino a questo castello vi è una barca del barone (feudatario), che passa sul Volturno; un’altra è sotto la villa della Frustella nel contado di Caiazzo, e un’altra ancora sta presso il mulino baronale (di Pietramala) vicino a Capua, e fuori del territorio di Caiazzo, ma sotto la giurisdizione del padrone della città. Caiazzo e il suo distretto confinano da una parte con la baronia di Alvignano, del Principe di Caserta, e con la baronia di Formicola, del signor Duca di Maddaloni, e la baronia di Raiano. Da un’altra parte c’è il fiume Volturno e di là la baronia di Morrone (Castelmorrone), e Dugenta, del signor Principe di Conca, la baronia di Limatola dei signori Gambacorta. Capi popolo sogliono essere il dottore in legge Giovanni Lorenzo Gentile, il medico Pompeo Lampiero, che vogliono sempre dominare. Giovanni Battista Alberti e Paolo di Novello, medico, fanno i repubblicani. Alfonso d’Alois, napoletano e abitante in Caiazzo, ho inteso faccia il duca in modo che gli dicano Sua Altezza. Bisognerebbe tenere tutti questi un po’ mortificati perché con un minimo d’ardire sarebbero inquieti. Nel resto in tutti questi regna gran doppiezza e bisogna star sempre avvertiti”.
Il breve reportage di Giovanni Francesco Feronia, degli inizi del Seicento, confermava le convinzioni degli economisti suoi contemporanei , secondo cui quattro erano i pilastri della ricchezza del Regno di Napoli, e cioè il grano, il vino, la seta e l’olio. Dopo un lungo periodo di stanca, in cui non mancarono penurie, epidemie e rivolte, l’agricoltura si riprese. Luigi De Rosa3 sostiene che “nel 1769 Antonio Genovesi non esitò a trasformarsi in editore dell’opera del pistoiese Cosimo Trinci, L’agricoltore sperimentato, già pubblicata a Lucca nel 1726, corredandola di un’ampia prefazione, nella quale Genovesi osservava che se il Regno di Napoli era largamente spopolato e soffriva frequenti carestie, questo avveniva per la rozzezza e la debolezza dell’agricoltura, senza molte cognizioni ed un forte stimolo che la spinga”. Intorno alla metà del XVIII secolo, quando in Caiazzo fiorivano diverse attività agricole e industriali, tra cui una remunerativa vetreria, l’agente feudale Domenico Antonio Pasquinucci stilò per il marchese Giovanni Corsi4 delle meticolose osservazioni sugli alberi di gelso, habitat dei bachi da seta, sulla convenienza di piantare un maggiore numero di olivi e sulla consistenza dell’allevamento di suini dal pelo scuro: “Coltivazione dei gelsi. Pare che sia arrivata a un termine che si possa pensare e discutere a tavolino, se sia interesse di sospendere piuttosto che proseguirne le piantate, poiché avendone assicurate circa tremila piante in diversi territori del Feudo, quando queste daranno il proprio frutto, non si mette in dubbio che costituiranno un buon capitale per la Casa del padrone. Vi è da considerare la quantità delle persone, che sarebbero necessarie all’assistenza dei bachi, le quali non si trovano così facilmente da potersene fidare con tutta sicurezza, sicché invece di profitto s’abbia a rischiare di trovarsi nello scapito. Coltivazione degli olivi. Questa sola si trova utilissima per la ragione del gran credito che ha preso l’olio del Feudo. Si è deciso di proseguire la piantata della Selvetella5, dove vi è da rimettere una buona quantità di piante perse, e vi sono ancora quaranta moggia di terreno da diboscare. Vi sono moltissimi territori nella Fattoria di Raiano capaci di questa coltivazione, dove piantare ogni anno 500 ulivi. A Le Serole vi è un terreno, dove provano meravigliosamente gli ovoli (piccole piante) all’uso della Toscana. Si è lasciato per ricordo che ogni anno se ne mettano sotto terra sette o ottocento pezzi che si è stabilito di piantare. Vi è il vantaggio e la sicurezza che l’olio riesce di somma perfezione, che ha un credito indicibile e che il frutto si ottiene con pochissima fatica; sicché per questi ed altri riflessi non pare si possa mettere in dubbio che questa coltura vada proseguita con impegno, assegnando ogni anno una quantità di piante e un terreno dei migliori per continuarne la piantata. Industria dei neri. Pare sicuramente la migliore e la più proficua di tutte le altre. Ogni anno si aspetta il carnevale per cogliere una vendita vantaggiosa, ma in pratica succede per lo più tutto il contrario, ora per un motivo ora per l’altro, e dopo aver consumato una quantità notevolissima di grano indio (mais) per ingrassare gli animali, ci troviamo esposti a qualche scapito nei prezzi. Si faccia dunque un serio e ben ponderato esame se, attese le circostanze dei tempi presenti, in cui sono ricresciute per il Regno simili industrie, e attesa la mancanza d’una certa accortezza, che sarebbe necessaria nei subalterni per sapersene disfare a tempo, mi pare meglio vendere i maiali appena spoppati, mettendo a calcolo le esorbitanti spese che ci vogliono per il mantenimento di tanti guardiani e per le altre persone stipendiate e spesate. Col risparmio di queste e con l’altro di poter vendere il grano indio e il frutto delle selve può venire alla Casa un maggior profitto”.
Infine c’era una chiosa sui Fattori del feudo, ove si diceva: “Non vi è dubbio che per il buon governo della campagna, industrie e altro, i fattori sono il braccio destro del ministro, ma non vi è altresì cosa più falsa che per la più vantaggiosa direzione dei suddetti interessi sia necessario, o almeno profittevole, d’avere i detti fattori toscani. Che i nostri possano essere più galantuomini dei regnicoli è difficile a provarsi; che siano più esperti e più capaci di un buon regolamento, questo non è da ammettere perché il toscano esperto qua nel Regno diventa novizio e ha bisogno di far nuova pratica”.
L’agente feudale Pasquinucci, dotato di una perspicacia da provetto agronomo, redasse anche un piccolo trattato sul metodo di raccolta delle olive in Caiazzo: “Quando le olive sono giunte a un punto di maturità e incominciano a cadere, il che succede dopo la metà di novembre, il proprietario dell’uliveto prende quella quantità di uomini e donne che crede sufficiente per la raccolta. Gli uomini portano tutti una scala lunga assai, e stretta secondo il modello, con scalini molto rari e con le due aste che posano in terra, lunghe dalla parte di sotto dopo l’ultimo scalino e appuntite, per poterle fare entrare almeno un palmo nella terra, per liberarsi dal pericolo di una caduta e per non gravar tanto sui rami dell’ulivo. La scala si fa di castagno sottile, per lo più riunita nella cima, e gli scalini non sono sovrapposti e incastrati; ma, per mezzo di un buco, fatti entrare nelle due aste che compongono la scala. Messe le scale al loro posto e saliti gli uomini in numero almeno di due su ogni ulivo, brucano le olive con le mani, facendole cadere in terra, e per quelle che non scendono giù, tengono una pertica sottile e lunga, con un uncino di legno, e torcono i rami per avvicinarle; e se non possono fare ciò, battono quei rami con la pertica, prendendola in mano dalla parte dell’uncino, e fanno cadere le olive. Sotto l’ulivo si spandono dei lenzuoli di tela grossissima, e le donne pensano a levare le fronde che cadono e a raccogliere le olive che vanno fuori dai lenzuoli. Raccolte le olive, si portano al frantoio, e per far l’olio si macinano senza riscaldarle, e la pasta che sorte dalle macine si getta in una gran pila di pietra viva e si lascia stare una mezza giornata. Tutto l’olio che nel depositarsi rifiorisce (torna in superficie), si toglie e si chiama qui olio vergine. La pasta che rimane si pone nelle gabbie e si stringe sotto il torchio. In ultimo si aggiunge dell’acqua per far uscire l’olio interamente”.
Le relazioni che abbiamo letto, dense di dati e di riflessioni svolte con ponderatezza, offrono un valido contributo per una complessiva storia dell’agricoltura nell’area caiatina in età moderna.

Riferimenti bibliografici

  • Raffaele Ajello, La civiltà napoletana del Settecento, in Civiltà del Settecento a Napoli, volume primo, Centro Di, Firenze 1980, pp. 17-18.
  • Piero Camporesi, La terra e la luna. Alimentazione folclore società, Mondolibri, Milano 2011 (1989).
  • Giuseppe Coniglio, Il Viceregno di Napoli nel secolo XVII. Notizie sulla vita commerciale e finanziaria secondo nuove ricerche negli archivi italiani e spagnoli, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1955.
  • Francesco Dandolo e Gaetano Sabatini, Lo Stato feudale dei Carafa di Maddaloni. Genesi e amministrazione di un ducato nel regno di Napoli (sec. XV-XVIII), Giannini, Napoli 2009.
  • Domenico De Marco, Momenti della politica economica di Carlo e Ferdinando di Borbone, in Civiltà del Settecento a Napoli, volume primo, Centro Di, Firenze 1980, p. 24.
  • Luigi De Rosa, Conflitti e squilibri nel Mezzogiorno tra Cinque e Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1999.
  • Giulio Guicciardini Corsi Salviati, La villa Corsi a Sesto, Olschki, Firenze 1937.
  • Aurelio Lepre, Terra di Lavoro nell’età moderna, Guida, Napoli 1978.
  • Armando Pepe, Cronache caiatine del XVIII secolo, Youcanprint, Tricase 2018, p. 74-79 e n.
  • Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, GLF editori Laterza, Roma 2012 (1961), p. 290
  • Giulio Sodano, Da baroni del Regno a Grandi di Spagna. Gli Acquaviva d’Atri: vita aristocratica e ambizioni politiche, Guida, Napoli 2012.
  • Rosario Villari, Un sogno di libertà. Napoli nel declino di un impero (1585-1648), Mondadori, Milano 2012.

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Hinc felix illa Campania est, ab hoc sinu incipiunt vitiferi colles et temulentia nobilis suco per omnis terras incluto, atque (ut vetere dixere) summum Liberi Patris cum Cerere certamen. Hinc Setini et Caecubi protenduntur agri. His iunguntur Falerni, Caleni. Dein consurgunt Massici, Gaurani, Surrentinique montes. Ibi Leburini campi sternuntur et in delicias alicae politur messis. Haec litora fontibus calidis rigantur, praeterque cetera in toto mari conchylio et pisce nobili adnotantur. Nusquam generosior oleae liquor est, hoc quoque certamen humanae voluptatis. Tenuere Osci, Graeci, Umbri, Tusci, Campani.
[Plinius Sen., "Nat. Hist." III, 60]

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