Matteuccia da Todi e il Noce di Benevento. Tra scienza, fede e superstizione

di Mariano Ciarletta

Matteuccia di Francesco di Ripabianca, conosciuta anche come Matteuccia da Todi (1388-1428) è stata una monaca accusata di stregoneria e conosciuta anche come “Strega di Ripabianca”. Le sue vicende sono strettamente collegate al celebre Noce di Benevento.

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Alle origini della "superstitiosa noce di Benevento" e l’intervento di San Barbato

Prima di analizzare la figura di Matteuccia da Todi, le vicende che riguardano il suo processo e la sua condanna a morte, è bene concentrarci sul contesto storico durante il quale si svolsero quegli eventi che non riguardarono unicamente questa donna accusata di stregoneria, ma tante altre ritenute colpevoli del medesimo crimine. Uno dei documenti principali per tracciare un percorso tanto geografico, quanto storico-folkloristico della zona presa in analisi è il prezioso trattato scritto dallo storico, filosofo e medico Pietro Piperno, Della Superstitiosa Noce di Benevento. La narrazione del pratico manoscritto del Piperno, diviso in quattro parti, si apre con le vicende riguardanti la città di Benevento sotto il Serenissimo Duca Romualdo VI (671-687), il quale stava conducendo una guerra sanguinosissima contro l’imperatore di Costantinopoli Costante II (630-668). Quest’ultimo, dopo aver preso già possesso della Puglia e dopo aver devastato il Siponto, aveva posto sotto assedio, con un esercito di 30.000 soldati greci, la città di Benevento che, come ci ricorda Erchemperto nella sua Storia dei Longobardi, non conoscerà mai un attimo di pace perché sempre coinvolta in guerre e conflitti prima contro i Bizantini, successivamente contro i Franchi di Pipino e a cui vanno aggiunte le guerre che si consumarono davanti le mura beneventane a causa dei continui assalti di Siconolfo, principe di Salerno, durante la metà del IX secolo. Nelle criticità del conflitto in cui i beneventani ben presto si trovarono, vi fu chi tra questi scelse di resistere valorosamente e chi, invece, optò per scendere a patti con l’imperatore bizantino affinché, l’assedio alla città venisse tolto. Fu proprio in questo clima di disperazione che, improvvisamente, si inserì tra le genti beneventane la figura di San Barbato. Egli, dotato di carisma e forte del supporto dei beneventani, iniziò a predicare per le piazze e per le strade della città, affermando come i patimenti e gli stenti causati dal lungo assedio erano invece la conseguenza dei numerosi e gravi peccati commessi dai signori e dai cittadini locali. Tra i molteplici crimini dei quali erano rei i beneventani vi era stato, secondo il Santo, uno particolarmente sgradito a Dio, che aveva come conseguenza generato il “sommo castigo” su quella gente: l’adorazione portata da alcuni membri della città ad una sorta di serpente di bronzo, era stato legato o probabilmente sospeso ad un albero di noce (distante circa due miglia dal centro cittadino) e presso il quale, in determinati giorni della settimana, uomini e donne della città vi si recavano rendergli onori. L’identificazione della città di Benevento come luogo in cui si verificavano ogni sorta di scelleratezze e rituali ancorati alla tradizione pagana, emergerà anche nel corso del IX secolo e di cui ci parla Agobardo di Lione nei suoi trattati contro la superstizione. In questi scritti (dal carattere fortemente scientifico) l’autore della trattazione cerca in tutti i modi di discolpare i beneventani accusati appunto di aver diffuso la terribile peste bovina in Gallia tramite riti sacrileghi e polveri velenose, per presentare queste supposizioni come il frutto di una “follia generale” e di credenze meramente superstiziose.
Nella Vita di San Barbato (più volte richiamata tanto dal Piperno, quanto dallo storico Pochettino) ci vengono descritte, in maniera più approfondita, le pratiche rituali legate all’albero di Noce. A Quest’ultimo, probabilmente consacrato al Dio nordico Wotan, venivano appese delle pelli che, successivamente, venivano perforate con delle frecce da alcuni uomini in movimento – probabilmente in corsa – per essere, infine, mangiate. Alcune versioni differenti di questo rituale vorrebbero invece degli arcieri a cavallo correre lungo il perimetro del “Sacro Albero” a briglia sciolta, per poi scagliare il dardo all’indietro, girandosi di schiena in direzione di quest’ultimo.
Romualdo VI, nonostante si fosse convertito al cristianesimo, insieme ai nobili della città era solito darsi a queste pratiche idolatre tanto che, stando ai preziosi riferimenti di Giuseppe Pochettino, sappiamo che presso il suo palazzo egli disponesse del medesimo simulacro in oro al quale, abitualmente, rendeva onori. Inoltre, la venerazione della vipera d’oro aveva avuto una diffusione ampia nel ducato beneventano poiché, in quasi tutte le case – da quelle più ricche a quelle comuni – era possibile rintracciare un’immagine che rappresentasse la Vipera. Non è un caso, inoltre, che l’immagine della vipera-serpente ci riconduca all’antico culto di Iside che, stando agli studi dello storico Paolo Portone non era probabilmente estraneo ai cittadini beneventani. Infatti, secondo le ricerche portate avanti dallo studioso, è probabile che già prima dei culti degli alberi introdotti dai longobardi nella città di Benevento, vi fosse addirittura un tempio dedicato alla dea Iside. Ciò spiegherebbe anche la permanenza del culto della “Vipera” che, di fatti, richiamerebbe le caratteristiche di questa divinità femminile. È Tipico di Iside, infatti, sedere su un grande trono, mentre ai suoi piedi sono distesi sia un serpente (vipera) che un gatto. Inoltre, nella mitologia egizia, ci viene spesso tramandato che, nel momento in cui Iside inizia a parlare, dalla sua bocca fuoriesce un serpente, simbolo della parola che si fa materia e dunque acquista forza di prova durante i discorsi, mentre il rettile che giace ai suoi piedi è emblema della forza e della fecondità della terra. Basandoci dunque sulla ricerca di Paolo Portone, possiamo dunque portare alla luce un ulteriore percorso di ricerca; ossia quello che vorrebbe il rito della Vipera d’oro come pratica religiosa “conservata” ma non “introdotta” dai Longobardi nella città di Benevento.
Nel celebre trattato del bibliografo, nonché erudito italiano e dignitario pontificio Gaetano Moroni, viene riportata, con ulteriori dettagli, la vicenda di San Barbato nella città di Benevento nel corso del VI secolo. Lo storico, inoltre, ci tiene a precisare che le pratiche di venerare alberi, sorgenti e luoghi naturali erano tipiche proprio delle genti longobarde che, con fervore, rendevano onore soprattutto a quella tipologia di alberi Sanctivi ritenuti sacri. Ovviamente, durante questi riti, soprattutto da parte cristiana, non si riusciva a comprendere verso chi fosse realmente indirizzata tutta quella devozione e ciò indusse il sospetto che, quella pratiche, fossero una vera e propria adorazione di demoni e creature infernali. Ben presto, questi rituali vennero totalmente ascritti tra quelli pagani e fu, per tale motivo che, con la salita al potere di Liutprando (713-735), il quale come ci ricorda lo storico Federico Patetta, nei suoi 155 capitoli aveva ribadito la conversione dei longobardi al Cristianesimo, essi vennero drasticamente condannati, insieme a coloro che li praticavano (incantatori, streghe, maghi). Ritornando agli studi del Moroni, apprendiamo che lo stesso veto venne introdotto dal medesimo sovrano longobardo nella città di Ariola, dove venne messa al bando ogni forma di superstizione e dove furono aboliti gli aruspici. Questo processo, in verità, era già stato avviato negli anni precedenti dagli imperatori bizantini Costantino I e Costanzo e dai goti Teodorico ed Atalarico durante il VI secolo d.C. Fu dunque stabilito che le genti longobarde dovessero fare ammenda per le idolatrie commesse con preghiere, digiuni e numerose penitenze. La predicazione di San Barbato non passò inosservata a Romualdo VI. Egli, dopo aver riflettuto accuratamente sulla situazione in cui versava il ducato, fece convocare al suo cospetto il Santo per comunicargli che avrebbe abolito quella “superstizione” se l’assedio fosse stato sciolto. Fu così che in città si consumò una lunga processione nella quale con preghiere e inni alla Vergine si tentava di purificare ogni sorta di peccato e idolatria. Con l’atteso intervento del Re Grimoaldo e il sacrificio del fedele Gesualdo che preferì morire piuttosto che tradire i cittadini di Benevento, il conflitto si risolse con la vittoria dei Longobardi i quali, rafforzati dalle truppe di Grimoaldo, costrinsero le milizie imperiali a ripiegare alla volta di Napoli. Con la liberazione di Benevento, Romualdo mantenne la promessa fatta a Dio e a San Barbato che, frattanto, con la morte del vescovo di Benevento, Ildebrando, divenne egli stesso vescovo di quella Chiesa. La Superstiziosa Noce venne abbattuta e, secondo la leggenda, quando venne fatta sradicare, tra le radici di quest’ultima venne addirittura trovato un demone a forma di serpente che lo stesso Barbato riuscì ad uccidere solo cospargendolo con l’acqua benedetta. Leggendo la cronaca del Piperno si può comprendere come, già a partire dal VI secolo d.C., il luogo in cui era radicato l’albero di noce iniziasse a configurarsi come uno spazio dedito all’occulto. Lo stesso Piperno, infatti, utilizza il termine Nido di Stregoni per anticipare il famoso rito del Sabba che troveremo più tardi. Nonostante l’abbattimento dell’albero di Noce, sappiamo che i longobardi (e per primo lo stesso Romualdo) non abbandonarono facilmente il culto del serpente o vipera d’oro che, dal cronista longobardo, ci viene descritto sia come alato, sia avente due teste. Fu solo grazie all’Intervento di Teuderada, moglie di Romualdo, la quale durante una battuta di caccia portò di nascosto il simulacro della vipera d’oro a San Barbato, il quale lo fuse per farne un meraviglioso calice d’oro, (che ancora oggi si trova nell’arcivescovato di Benevento) che la condizione religiosa di questi longobardi si avviò verso una più compiuta adesione al cristianesimo. Proprio riguardo la Vipera d’oro secondo uno studio pubblicato nel 2015 sulla rivista Medioevo Dossier, è con l’espletarsi dei riti di venerazione intorno a tale simulacro, svoltisi intorno la Noce di Benevento, che si inizia a configurare il primo vero e proprio sospetto riguardante la presenza delle streghe nel Meridione italiano e (anche se questo non è sicuramente l’unico caso) rimane comunque uno tra quelli più eclatanti.

Il Basso Medioevo e il processo a Matteuccia di Todi (1428)

Come afferma Oscar Di Simplicio nel suo Autunno della Stregoneria, definire le dimensioni e soprattutto le caratteristiche che hanno contraddistinto la famosa “caccia alle streghe” non è cosa da poco. Tale procedimento, infatti, tende a complicarsi quando si cerca di fare chiarezza non soltanto sul contenuto dei processi e al numero delle condanne emanate contro le presunte streghe, ma quando si tenta di risalire sia agli anni, sia ai luoghi geografici dove la “terribile caccia” si verificò e poi attecchì maggiormente. I primi interventi contro la stregoneria si riscontrano a partire dal IV secolo d.C., quando con l’imperatore Costantino vennero promulgate pene e provvedimenti giuridici verso coloro che si rendevano protagonisti di artifizi e sortilegi. Già prima dell’imperatore bizantino però, Plinio il Vecchio (79 d.C.) aveva sostenuto (in numerosi suoi scritti) che la magia e l’arte della stregoneria fossero strumenti attraverso i quali si poteva praticare l’occultamento delle frodi e che, coloro i quali si professavano o stregoni o indovini (in grado di comunicare con i morti e comandare le ombre) non fossero altro che dei ciarlatani. Un esempio, inoltre, ci viene dato dall’incontro tra lo stesso Plinio e il mago Tiridate, il quale (sotto l’impero di Nerone) si rese artefice di numerose “cene magiche”, dove egli palesò la sua capacità nelle arti venefiche piuttosto che in quelle magiche o divinatorie. Sulla scia di Plinio, altrettanto importante è ciò che ci viene testimoniato dal filosofo e stoico Lucio Anneo Seneca (65 d.C.) con riferimento alle leggi delle XII tavole nel quale veniva stabilito il divieto di incantare o maledire i frutti della terra. Nel corso del V secolo d.C., la condanna nei confronti delle arti magiche fu confermata da Onorio (384-423 d.C.) ribadendo l’alleanza sia dello stato, sia della Chiesa contro maghi e stregoni. Questa posizione venne poi rinnovata durante il periodo longobardo-franco, nel corso del quale vennero pubblicate alcune leggi che punivano le streghe o mascae. Durante il Basso Medioevo, precisamente dal XII secolo, la Chiesa iniziò invece ad attuare, seppur in maniera blanda, i primi interventi contro coloro che si dilettavano nelle arti magiche. Nel 1257 infatti, Papa Alessandro IV ribadiva sì l’importanza di intervenire contro streghe e stregoni, ma purché questo compito non ricadesse sugli inquisitori. Secondo il pontefice tale attività spettava unicamente al potere temporale (magistrati e giudici). Questo concetto più tardi venne ribadito anche da Bonifacio VIII, il quale riteneva che le questioni inerenti alla stregoneria dovessero essere di pertinenza di un tribunale laico e non ecclesiastico. Fu solo agli albori del XIV secolo che l’atteggiamento nei confronti della magia e della stregoneria iniziò a mutare drasticamente. Con Giovanni XXII e poi con il suo successore Benedetto XII si stabilì che fosse compito del Santo Ufficio dell’Inquisizione perseguitare e reprimere tanto il crimine di eresia quanto quello di stregoneria. Inoltre, è proprio durante la metà del XIV secolo, con la comparsa della terribile epidemia di peste bubbonica, che la strega divenne a tutti gli effetti il capro espiatorio di una società che la riteneva come “untrice” e dunque causa dell’inguaribile morbo. Dopo gli interventi di Eugenio IV nel 1437 e di Niccolò V nel 1451, fu la volta di Innocenzo VIII. Nel 1484, con la famosa bolla Summis desiderantes affectibus, il pontefice promosse una spietata e feroce repressione contro tutti quegli uomini e quelle donne scoperti a praticare arti e pratiche magiche. Ancora, è proprio a cavallo tra il XIV e il XV secolo che iniziò ad essere impiegato il termine “Sabba” che (come afferma lo studioso Jean Claude Schmitt nel suo Medioevo Superstizioso) fu quel processo attraverso il quale non soltanto i giudici, ma anche i nobili e la popolazione tutta iniziarono a sperimentare delle vere e proprie tecniche per “rappresentare la stregoneria”. Queste tecniche, come afferma Vincenzo Lavenia, si riscontrano nel corso del XVI secolo in due celebri opere: il De Strigimagarum demonunque mirandis libri tres del predicatore Silvestro Mazzolini e il Tractatus de striigis di Bernardo Rategno, entrambi scritti tra il 1521 e il 1523 e che tendevano a ribadire l’esistenza dei voli notturni e dunque la necessità di bandire delle vere e proprie crociate contro indovini, maghi e streghe.
Durante il Basso Medioevo, precisamente intorno al secondo ventennio del XV secolo, nell’anno 1428, si consumò un lungo processo contro una donna di Ripabianca di Deruta, successivamente conosciuta e registrata negli atti inquisitoriali come Matteuccia di Todi o Matteuccia di Francesco. Parallelamente, sempre nel 1428, si verificavano numerosi e cruenti processi aventi come oggetto il “raduno notturno” ai danni di numerosi cittadini del Vallese (nella parte Sudoccidentale della Svizzera) e che poi, dieci anni più tardi, si ripeteranno anche in altri territori delle Alpi e nel Nord della Francia. Inoltre, grazie agli studi e alle fonti prese in considerazione, sappiamo che tanto la superstizione, quanto l’ossessione degli inquisitori verso le pratiche demonologiche delle streghe portarono, verso la fine del XV secolo e gli inizi del XVI secolo a violentissime persecuzioni contro uomini e donne sia al di sotto delle Alpi, sia nel feudo di Mirandola (ricordiamo la crociata contro le streghe avviata da Girolamo Armellini, inquisitore di Reggio e di Parma nel 1522 ) provocando un vero e proprio eccidio di innocenti. Fu proprio in seguito a questo drammatico evento che l’umanista Pico della Mirandola scrisse il celebre dialogo Strix. Ciò che è importante comprendere è che i temi della superstizione, dei voli notturni, del Sabba e delle danze intorno agli alberi nacquero nel corso del Basso Medioevo ma con numerose varianti e punti di vista differenti si conservarono fino al XVI e poi XVII secolo. Un chiaro esempio è ciò che accadde nel corso del 1600 quando, in alcuni monasteri del Sud Est della Francia, si iniziò a parlare del fenomeno delle “possessioni collettive” o “isterie di massa” riguardanti alcune monache che, a seguito di presunti malefici e fatture effettuate da alcune consorelle (additate a tutti gli effetti come streghe) sarebbero state soggette a violente possessioni demoniache. Da qui, l’intervento di numerosi inquisitori ed esorcisti che, durante dei veri e propri processi, servendosi della tortura e invocando punizioni esemplari, stabilirono numerose condanne al rogo per tutte quelle monache che si erano macchiate di tali atti sacrileghi.
Grazie agli studi di Domenico Mammoli, oggi disponiamo di un piccolo volume che, in maniera organica e fruibile, ci restituisce le varie fasi del processo contro Matteuccia di Todi. Inoltre, nella stessa opera, è presente un’accurata descrizione diplomatica dei documenti presi in considerazione per la ricostruzione del processo contro l’imputata. Si passa dall’elenco dei sigilli a forma di croce che sono posti al termine di ogni documento (i quali sono collocati dal notaio “rogante”, un tale Novello Scuderijj da Vassano che, allo stesso tempo, aveva anche la funzione di cancelliere) all’elenco di tutti i crimini compiuti dall’inquisita. Ovviamente, gli atti processuali contro Matteuccia di Todi contengono tutti quegli elementi che sono tipici e riscontrabili in altri processi per stregoneria. Così, partendo dagli ormai noti scritti del Ginzburg e da altri studi dedicati alla stregoneria, si fa riferimento ad alcuni fondamentali testi di patrologia latina, nei quali comprendiamo come tutte queste donne, accusate del crimine di stregoneria, fossero convinte e ammettessero durante i processi espletati contro la propria persona (ovviamente deve essere considerata anche e soprattutto l’applicazione della tortura contro quest’ultime) non solo di essere state sedotte da Satana in persona, ma di poter cavalcare bestie di ogni sorta per spostarsi di notte, al fine di raggiungere i luoghi preposti al rito del Sabba e di prestare servizio ad una divinità descritta con nomi differenti. Il più frequente, presente in altri numerosi processi, è quello di Diana, la quale di fatto alluderebbe alla dea dei pagani. Al posto di Diana, altre volte, è invece presente il nome di Erodiade o quello di Holda.
Anche nel processo a Matteuccia di Todi, dunque, si fa riferimento alla celebre “cavalcata” delle streghe che è quasi sempre preceduta da rituali ben precisi. Non solo Jules Michelet, Carlo Ginzburg, Jean Claude Schmitt, ma anche Brian P. Levack e Abele de Blasio (autore del prezioso volume Inciarmatori, maghi e streghe di Benevento) ce ne restituiscono una breve ricostruzione. Era molto importante, infatti, che la presunta strega prima della cavalcata notturna ungesse il suo corpo con uno speciale unguento magico (tratto da cani e cadaveri, polvere di morto, ciocche di capelli prima bruciate e poi polverizzate, penne di volatili, unghie di mula, etc.). È proprio l’unguento, il quale si applicava tra le cosce della strega e poi su tutto il corpo, a permetterle di spostarsi con l’ausilio degli elementi naturali, ossia l’acqua e il vento e, allo stesso tempo, di causare malanni e fatture. Ritornando al processo contro Matteuccia, circa trenta furono i capi d’accusa che la videro protagonista in quel 1428. La prima vertenza in cui comparve il nome della donna riguardava una giovane di Collemezzo che, dopo essersi rivolta alla fattucchiera per risolvere alcuni problemi con il marito, ottenne da quest’ultima un uovo e dell’erba cavallina che avrebbero dovuto risvegliare la passione dell’uomo verso la sua consorte. Ciò che sappiamo dalle fonti processuali è che tale rimedio ebbe la sua efficacia e la stessa Matteuccia, forte dei risultati ottenuti, continuò a somministrare altri rimedi, per i più svariati motivi, a numerose giovani le quali presentavano alla strega la medesima richiesta: risolvere i propri problemi coniugali. Accanto a queste, poi, vi erano anche coloro che desiderano piegare alla loro volontà – poiché consumate dalla passione o dalla gelosia – uomini che si erano già uniti in matrimonio con altre donne. Anche in questo caso, il Mammoli ci racconta come la strega consegnasse a queste donne della cenere ricavata da rondini bruciate che doveva essere mescolata ad acqua e poi somministrata ai malcapitati. L’arresto di Matteuccia, avvenuto come abbiamo detto nel 1428, quando la città si trovava sotto il controllo del potentissimo Lorenzo de Surdis, capitano e custode di Todi, coincide con la venuta presso la cittadina di un altro importantissimo personaggio che con la sua fede e la sua devozione, ma soprattutto con la sua predicazione contro gli atti stregoneschi, fu determinante per la cattura della strega, San Bernardino da Siena. Quest’ultimo, infatti, riteneva che le streghe - le quali secondo il predicatore si dividevano in tre principali categorie: indovine, incantatrici e lanciatrici di sortilegi - in quanto esseri malefici, fossero non solo causa di sciagure e malanni, ma che avessero anche il diretto controllo sugli elementi della natura. Inoltre, stando agli scritti che ci riportano la predicazione del Santo, apprendiamo che queste donne dovevano essere ritenute come un vero e proprio “anti-modello” sia dal punto di vista morale, ma soprattutto sotto il profilo sociale e spirituale ed è per tale motivo che il “buon cristiano” aveva l’obbligo di fuggire dalle illusioni demoniache create da quest’ultime per confondere e deviare gli animi puri e retti nella fede. Ritornando al potere che le streghe esercitavano sugli elementi della natura, non è un caso che lo stesso Bernardino riprendesse nei suoi scritti gli studi di Agobardo di Lione il quale, già nel IX secolo, nel suo Trattato contro la superstizione, aveva raccontato in maniera ironica le credenze dei contadini verso i famosi “tempestari” che, durante il XV secolo, assunsero una nuova fisionomia: quella di strega. È la strega, infatti, ad essere in grado di generare terribili tempeste per distruggere i raccolti. La predicazione di San Bernardino contro il crimine di stregoneria, come sostiene la storica Marina Montesano nel suo volume Classical culture and and Wichcraft in Medieval and Renaissance Italy, non ebbe luogo solo nella città di Todi durante l’anno 1428, ma fu già attiva tra il 1426 e il 1427 prima a Roma – luogo dove, per volontà del Santo, vennero prima perseguitate in maniera atroce e poi arse vive numerose streghe e altrettanti uomini accusati di essere degli stregoni - e, successivamente, in alcuni territori dell’Italia Centrale tra cui ricordiamo: Spoleto, Montefalco ed infine Todi. Fu proprio in quest’ultima città, nell’anno 1428, che l’attenzione del predicatore si concentrò sulla sfortunata Matteuccia, da tempo vittima di sospetti e terrore da parte della popolazione locale.
Alla presenza di Lorenzo De Surdis e dell’intero tribunale inquisitoriale viene rapidamente tracciato il profilo dell’inquisita. Matteuccia venne additata non solo come strega, ma definita come donna di malaffare, fattucchiera, incantatrice e soprattutto come artefice di numerosi sortilegi che emersero dalle numerose accuse presentate contro di lei da uomini e donne di “buona fede”, che l’avrebbero denunciata presso il De Surdis e presso lo stesso tribunale. Stando ai racconti dei testimoni, la donna si sarebbe servita di alcuni oggetti incantati (specialmente cinghie e sopravvesti) per causare infermità, malattie e dolori a coloro i quali le indossavano e, a quanto ci viene detto dal Mammoli, nella sua ricostruzione del processo, tali scelleratezze erano state praticate dall’inquisita già a partire dal 1425. A proposito delle “vesti incantante”, alquanto singolare appare il rito della “misurazione dei panni” attraverso il quale la strega di Todi avrebbe liberato numerosi uomini e donne posseduti da spiriti maligni e a cui si aggiunge anche un ulteriore rituale, ossia quello dell’osso pagano che, come vedremo successivamente, si collegherà all’accusa di infanticidio mossa contro la donna. Durante la lettura del processo, l’elenco delle accuse tende ad ampliarsi e allo stesso tempo ad aggravarsi sempre di più; lo si comprende dalla frequente formula utilizzata dagli inquisitori e trascritta dal notaio “aggiungendo male a male” impiegata, probabilmente, per far comprendere ai presenti al processo la gravità delle accuse mosse contro la donna, tra le quali rientra anche quella della fascinazione, eseguita con alcuni singolari rituali - uno di questi consisteva nel nutrire un rondinino con dello zucchero per poi servirlo come cena alla persona che si voleva legare a sé - cui, più tardi farà ampiamente riferimento l’antropologo e storico Ernesto De Martino nel suo celebre volume Sud e Magia.
L’infanticidio è un'altra accusa mossa contro Matteuccia e tipica dei processi per stregoneria. Negli atti processuali, infatti, è scritto – sempre dopo la classica formula “aggiungendo male a male” – che questa donna così empia, dopo aver maledetto, fatturato e tormentato numerosi uomini e donne, come posseduta da un’entità diabolica, uccise numerosi bambini, succhiando il loro sangue non solo presso la città di Todi, ma anche sotto la stessa noce di Benevento che le era facile raggiungere dopo essersi accuratamente cosparsa con del grasso di animale con aggiunta del sangue degli innocenti. Inoltre, dopo vari interventi coercitivi, ella stessa raccontò durante il processo che tale pratica le consentisse di tramutarsi in svariate forme animali; addirittura ella sostenne di essersi tramutata in mosca e di aver cavalcato un caprone nero per compiere azioni mostruose e indicibili. La figura della strega che prende forma animale a seconda delle esigenze - nei documenti processuali viene quasi sempre riportata la trasformazione in capra o in gatto, animali che di fatto sono etichettati dal Cristianesimo come “creature diaboliche” - o che si nutre del sangue degli infanti prelevandoli dalle culle delle loro madri, si riscontra anche nell’opera di Giovanni Francesco Pico della Mirandola, Strix. Questa ci viene accuratamente descritta dall’umanista, filosofo e statista fiorentino – il quale riprende le dicerie e le storie su tutte quelle credenze superstiziose del XV secolo - come un essere simile ad un uccello, con il becco torto, le penne nere e allo stesso tempo macchiate di bianco e in grado di emanare un orribile stridio dal quale, più tardi, nascerà appunto il termine strix, più tardi, strega. Non è un caso che nel mirino delle streghe vi sia quasi sempre la figura dell’infante. Abele De Blasio, nel suo paragrafo sulle Janare di Benevento, ci fornisce alcune delucidazioni su questo aspetto tanto macabro quanto controverso. Stando a quanto afferma l’autore, il quale basa le sue ricerche soprattutto su documenti che fanno riferimento a convinzioni e dicerie contadine, sappiamo che le streghe fossero solite, la notte che precede il sabato, “toccare” gli infanti, per poi condurli sotto il noce, quasi come un “trofeo”. Di ciò ci parla anche lo storico Jean Pierre Dedieu, quando ci racconta come, nel corso del XV secolo, iniziò a diffondersi la credenza che streghe e stregoni si riunissero di notte sotto gli alberi e in luoghi oscuri alla presenza del demonio, per adorarlo e divorare la carne degli innocenti, ossia di bambini uccisi. Sempre il De Blasio, inoltre, ci restituisce nei suoi studi la ricostruzione di un’ulteriore pratica espletata dalle streghe per poter catturare l’innocente per poi sacrificarlo: prima di essere toccato dalla strega, l’infante doveva ricevere una sorta di polvere bianca che veniva chiamata “adduobbio”, in grado di paralizzare i bambini in modo che essi potessero poi essere facilmente rapiti.
Per quanto concerne la questione del succhiare il sangue, per fare luce su un argomento così complesso è stato necessario prendere in considerazione diversi studi e fonti storiche. Questa pratica stregonesca, a quanto sappiamo, avrebbe non solo delle radici pagane ma risalirebbe, come sostiene il De Blasio, ad un mito ben preciso, ossia quello di Lamia. Secondo la tradizione, questo personaggio mitico ci viene descritto sia come un mostro, sia come una “rapitrice di bambini”. Nei vari racconti, inoltre, si fa riferimento a Lamia sia come strega sia come orco dalle sembianze e dall’aspetto femminile. Precedentemente alla sua trasformazione però, Lamia era una bellissima fanciulla della Libia – come sostiene Giulio Guidorizzi, la cui pelle era probabilmente di colore scuro – di cui Zeus si innamorò perdutamente. La gelosia di Era fu però fatale per la fanciulla; ella fu costretta a vedere, dopo ogni parto, la morte dei suoi figli e per compensare il suo dolore rubava e uccideva quelli delle altre donne. Fu così che quella giovane disperata si tramutò in un essere orribile in grado di succhiare il sangue dei bambini e delle puerpere e le cui azioni riconducono, inevitabilmente, ad un parallelismo con quelli perpetrati dalle streghe durante il rituale del Sabba. Al mito greco, si collega poi un’altra radice, alla quale fa riferimento non solo il De Blasio, ma anche Gershom Scholem. Trattasi dell’associazione tra la strega infanticida e il demone Lilith che, in molti incantesimi, rituali e scritti ebraici viene quasi sempre raffigurato come “persecutore di bambini” e come “succhiatrice di sangue”; inoltre, stando ai racconti che ci vengono restituiti dai testi ebraici, quando Lilith non riesce a trovare un neonato da sacrificare, si scatena con tutta la sua violenza sui suoi figli. Stando alla cultura astrologica, inoltre, questa è non solo collegata all’immagine della luna nera, ma viene presentata come un’entità demoniaca la quale, come le streghe, tende a muoversi e ad agire durante le ore notturne. Il simbolo della luna nera (dunque celata) pertanto rappresenterebbe le pulsioni recondite e inconsce dell’essere umano che, proprio durante la notte, tendono a manifestarsi.
Ritornando alle accuse contro Matteuccia di Todi e alla conclusione del suo processo, dagli atti inquisitoriali emerse che quella presunta strega era solita riunirsi con altri membri del Sabba Notturno in alcuni mesi dell’anno prestabiliti. Nei documenti vengono citati rispettivamente aprile, maggio, agosto, settembre, marzo e dicembre. Per quanto concerne i giorni, invece, i riti sotto la noce di Benevento venivano svolti il lunedì, il sabato e la domenica. Dopo un accurato ed estenuante processo durante il quale, come abbiamo precedentemente affermato, si fece sicuramente ricorso alla tortura, venne emesso il verdetto - ossia la condanna al rogo dell’inquisita in quanto membro marcio, iniquo e cancrenoso - che ci viene riportato fedelmente da Domenico Mammoli nelle ultime pagine della sua trattazione e che, qui di seguito, riproponiamo alla lettera:

Noi Lorenzo, capitano suddetto, sedente per il tribunale come sopra attenendoci e volendoci attenere, per le cose suddette, intorno alle cose predette allo spirito delle leggi e degli Statuti ed ordinamenti del comune di Todi, condanniamo nel modo migliore, via e legalità e nella forma di diritto che meglio possiamo e dobbiamo, che la predetta Matteuccia, comparsa personalmente dinanzi a noi, affinché non possa gloriarsi della sua malizia e iniquità e sia di esempio a chiunque desiderasse svolgere simile attività: impostale sul capo una mitria e legate le mani dietro la schiena, sia posta sopra un certo asino, e sia condotta e debba essere condotta personalmente al luogo pubblico dove abitualmente si amministra la giustizia o in qualunque altro luogo nell’interno o fuori di della città a giudizio ed a scelta del nobile uomo si Ser Antonio di S. Nazzaro da Pavia e ivi sia bruciata con il fuoco così che in maniera tale che la colpevole muoia e la sua anima si separi dal corpo1.

Bibliografia

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  • Giannamaria Caserta, Ciro Tammaro, Il Tribunale dell’Inquisizione nel Medioevo, Lineamenti del processo inquisitorio nei secoli XIII e XIV, Edizioni Penne e Papiri, Tuscania 2010.
  • P. Aldino Cazzago, Henri De Lubac, Venga il Tuo Regno, strumento internazionale per un lavoro teologico communio, 86, Jaca Book. Sesto San Giovanni 1986.
  • Francesco Colotta, I luoghi del mistero, Viaggio negli enigmi e nelle leggende dell’Italia Medievale, Campania, Nessuna pietà per le Janare, in “Medioevo Dossier”, Milano 2015, pp. 95-100.
  • Abele De Blasio, Guardia Sanframondi, notizie storiche, Tipografia Gentile, Napoli 1961.
  • Abele De Blasio, Inciarmatori, maghi e streghe di Benevento, Arnaldo Forni Editore, Luigi Pierro Tipografia editoriale, Napoli 1900.
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Hinc felix illa Campania est, ab hoc sinu incipiunt vitiferi colles et temulentia nobilis suco per omnis terras incluto, atque (ut vetere dixere) summum Liberi Patris cum Cerere certamen. Hinc Setini et Caecubi protenduntur agri. His iunguntur Falerni, Caleni. Dein consurgunt Massici, Gaurani, Surrentinique montes. Ibi Leburini campi sternuntur et in delicias alicae politur messis. Haec litora fontibus calidis rigantur, praeterque cetera in toto mari conchylio et pisce nobili adnotantur. Nusquam generosior oleae liquor est, hoc quoque certamen humanae voluptatis. Tenuere Osci, Graeci, Umbri, Tusci, Campani.
[Plinius Sen., "Nat. Hist." III, 60]

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